Home > Indice annate > Annata 2007
Frank Martin e la dodecafonia
Abstract
The most part of literature has underestimated Frank Martin’s relationship with the dodecaphony, perhaps deliberately. In reality, dodecaphony concerns a significant part of the production of the Swiss composer and cannot be reduced to a sporadic occurrence of twelve-tone series within thematic functions. The essays aims to analyze Martin’ s personal use of some instances of Arnold Schoenberg’s dodecaphonic method, particularly in the 4 Short Pieces for guitar (1933), in the first Concerto for piano (1933/1934), in the Trio pour violon, alto et violoncello (1936) and in Der Schrei, the eighth song of the cycle Der Cornet (1942/1943). While in these pieces, one might observe Martin's tendency to exploit the series especially as chromatic enrichment of the melodic line (usually without recourse to inversion or retrograde) predominantly in tonal harmonic contexts, there are, however, moments in which the series takes the control over the vertical dimension, thus becoming the real Grundgestalt of the composition. Nevertheless, also in this case Martin avoids to drive his music toward a complete atonality, building its series with a clear predominance of consonant intervals and triadic groups. In general, Martin’s relation to dodecaphony shows personal features, that should however be assimilated to the broader context of the reception of Schoenberg’s method in the Thirties and Forties.
Sottovalutato, forse anche volutamente, in buona parte della letteratura specialistica, il rapporto di Frank Martin con la dodecafonia investe una parte significativa della produzione del compositore svizzero e non può venire ridotto a una sporadica comparsa di serie dodecafoniche in funzione tematica. Il saggio mira ad analizzare la personale adozione di alcune istanze del metodo dodecafonico di Arnold Schönberg nella musica di Martin, in particolare nei 4 Brevi pezzi per chitarra (1933), nel primo Concerto per pianoforte (1933/1934), nel Trio pour violon, alto et violoncello (1936) e in Der Schrei, l’ottavo Lied del ciclo Der Cornet (1942/1943). Se da un lato si rileva la tendenza di Martin a sfruttare la serie soprattutto come arricchimento cromatico della linea melodica (solitamente senza ricorrere alle forme in inversione e retrogrado) in contesti armonici prevalentemente tonali, non vanno però dimenticati momenti particolari in cui la serie assume anche il controllo della dimensione verticale, assurgendo a vera e propria Grundgestalt della composizione. Martin evita comunque anche in questo caso di spingere la sua musica verso una completa atonalità, costruendo le sue serie con una chiara predominanza di intervalli consonanti e gruppi triadici. In generale, il rapporto di Martin con la dodecafonia mostra caratteristiche certo personali, però assimilabili nel complesso più ampio di una ricezione del metodo di Schönberg negli anni Trenta e Quaranta.
***
|
||||||||
Nella letteratura specialistica il rapporto di Frank Martin con la dodecafonia è stato oggetto di interpretazioni riduttive se non addirittura forvianti. Autore strettamente legato alla tradizione, strenuo difensore del linguaggio armonico tonale (per parafrasare il titolo di un suo importante saggio),[1] compositore di punta in una città, Ginevra, che aveva in Ernest Ansermet un fiero oppositore delle tendenze musicali coeve più radicali, la sua (parziale) adozione del metodo dodecafonico è stata spesso sottovalutata, quando non volutamente relegata a una sorta di incidente di percorso. Rudolf Klein, nella sua monografia del 1960, risolve la questione in un capitoletto di cinque pagine intitolato «Das Zwölfton-Zwischenspiel», in cui narra la sfida di Martin al «diabolus in musica»;[2] titoli analoghi si ritrovano sovente nei lavori successivi di altri autori, fino all’«intermède dodécaphonique» di Alain Perroux (2001).[3] Persino Bernhard Billeter, a cui dobbiamo alcuni tra gli studi più approfonditi sul compositore svizzero, usa toni quasi sarcastici nel descrivere compiaciuto le eccezioni di Martin al metodo di Arnold Schönberg.[4] Infine, la voce di Laurenz Lütteken nella nuova edizione di Die Musik in Geschichte und Gegenwart non menziona neppure la parola dodecafonia. Eppure non era certamente un mistero per nessuno di questi autori che tracce di un ricorso, seppur parziale, a metodi dodecafonici non sono affatto limitate a poche opere composte in un periodo determinato; al contrario si trovano esempi anche nell’ultima fase di produzione del compositore. Non è possibile documentare con precisione le modalità e i tempi dell’incontro di Martin con la dodecafonia. Il dato certo è che Martin appartiene a quella folta schiera di compositori che, a partire dagli anni Trenta, si sono accostati da autodidatti al "metodo di comporre con dodici note in rapporto soltanto l’una con l’altra", senza entrare in contatto diretto con Schönberg o con i suoi allievi. Alcune circostanze che probabilmente hanno favorito il primo approccio di Martin alla dodecafonia sono già state evidenziate da Ulrich Mosch[5] e varrà qui la pena riassumerle: nella stagione concertistica 1932-1933 l’Orchestra della Suisse Romande diretta da Ernest Ansermet eseguì la Lyrische Suite (nella rielaborazione per orchestra) e frammenti dal Wozzek di Alban Berg; sempre a Ginevra si tennero nel 1934 e nel 1935 due concerti del Kolisch Quartett con in programma composizioni – dodecafoniche e non – della scuola di Vienna. Non si esclude quindi la possibilità che Martin abbia avuto modo di discutere su questioni tecniche con Rudolf Kolisch, cognato e prima ancora allievo di Schönberg, che conosceva nei dettagli i princìpi del metodo dodecafonico. Mosch rileva inoltre come nel lascito del compositore svizzero, conservato alla Fondazione Paul Sacher di Basilea,[6] sia presente una partitura annotata dei Cinque pezzi per pianoforte op. 23 di Schönberg. Anche se non è possibile datare con certezza gli interventi analitici di Martin, mirati ad evidenziare la successione delle altezze dei brani numerando da 1 a 12 le singole note, questa partitura testimonia il suo approccio da autodidatta, in quanto il compositore tenta un’analisi dodecafonica di tutti i brani (lasciandola inevitabilmente incompleta) senza sapere che in realtà soltanto l’ultimo pezzo è stato composto a partire da una serie di dodici note. Al di là di ogni possibile supposizione, è un dato di fatto che il compositore inizia a cimentarsi con il metodo dodecafonico intorno al 1933 – con i 4 Brevi pezzi per chitarra e il primo Concerto per pianoforte – e continua a sperimentare nuove soluzioni almeno fino al 1937, anno di composizione della Sinfonia per grande orchestra (lavoro definito da Klein come «ein letzter Rückfall in die extreme, dissonanzenfreudige Art der radikalen Zwölftontechnik»).[7] È doveroso puntualizzare che in tutti questi casi parlare di composizioni dodecafoniche in senso stretto sarebbe completamente fuorviante, dal momento che nella musica di Martin l’impiego della serie non è mai esclusivo. I 4 Brevi pezzi per chitarra furono composti nel 1933 per Andres Segovia, dal quale però non furono mai eseguiti. Nello stesso anno Martin ne fece una trascrizione per pianoforte con il titolo Guitare: quatre pièces brèves puor piano e una versione orchestrale su impulso di Ansermet – che diresse la prima esecuzione nel novembre del 1934. Il lavoro, come si è visto, viene solitamente indicato come il primo approccio di Martin al metodo dodecafonico. In realtà si tratta di brani basati su un impianto tonale che tende a dissolversi nel cromatismo. Nei primi tre brani non compare infatti alcuna successione che possa essere legittimamente considerata una serie dodecafonica. In diversi momenti Martin mira evidentemente a esaurire il totale cromatico nell’arco di due o tre battute, ma le ripetizioni di altezze sono troppo numerose per far pensare che alla base ci sia l’impiego di una o più serie. In due occasioni – si confrontino le ultime nove battute di Prelude e le ultime cinque battute di Plainte – il compositore insiste su una stessa successione di intervalli, ripetendola e trasponendola, ma si tratta in ogni caso di una successione troppo breve (sei intervalli) per dare origine a una vera e propria serie dodecafonica. In generale, si può sostenere che in questi primi tre brani Martin accentui il cromatismo melodico (in un contesto comunque tonale) fino ad impiegare le dodici note pur senza ricorrere a una costruzione seriale. Leggermente diverso è il caso dell’ultimo pezzo, Comme une Gigue, dove invece è possibile individuare una serie dodecafonica, anche se il suo impiego è ben distante dall’ortodossia del metodo di Schönberg. L’esempio 1 riporta le prime due pagine della partitura nelle versione per pianoforte:
Esempio 1. FRANK MARTIN, Guitare: quatre pièces brèves puor piano, Universal Edition 1976, pp. 8-9
Esempio 2. Analisi delle altezze, bb. 1-9[8]
Nelle prime 5 battute, a
partire dal si ribattuto iniziale, inizia una prima
successione di dodici note fino al fa Pur nel limitato e irregolare impiego della serie, questo brano mostra già alcuni tratti tipici della dodecafonia di Frank Martin, e cioè la tendenza a usare la serie soltanto nella dimensione orizzontale e tendenzialmente in isoritmia. Entrambe le caratteristiche permangono nel successivo primo Concerto per pianoforte (1933/1934), una composizione che rivela un uso ben più ampio di mezzi dodecafonici. Il primo movimento si apre con una lunga introduzione (bb. 1-26) basata su un’ampia melodia molto cantabile del flauto su un pedale di mi, che – stando al racconto di Bernhard Billeter – era stata scritta di getto qualche tempo prima in una circostanza particolare:[9] essendo membro di una commissione della Schweizerische Tonkünstlerverein preposta ad assegnare borse di studio a giovani musicisti, Martin abbozzò questa linea melodica che i candidati avrebbero poi letto a prima vista. In seguito, durante la stesura del Concerto, il compositore ritrovò casualmente il pentagramma con la melodia e decise di riutilizzarla. Non si tratta in nessun caso di una melodia dodecafonica; al contrario, nonostante una certa tendenza al cromatismo, è una linea chiaramente riferibile alla tonalità di Mi minore, tonalità d’impianto del primo movimento del Concerto. Dopo l’introduzione, alla cifra 2, i legni presentano il primo tema (anch’esso chiaramente tonale), mentre il pedale sul mi si trasforma in un ostinato isoritmico dodecafonico sostenuto dagli archi:
Esempio 5. Serie del primo movimento e analisi delle altezze nelle prime battute dell’ostinato
L’ostinato prosegue senza
soluzione di continuità fino all’ingresso del pianoforte solista
alla cifra 5 e viene ripreso da quest’ultimo con valori ritmici
dimezzati; la serie su cui si basa il passaggio iniziale del solista
presenta caratteristiche interessanti, evidenziate nell’esempio 5:
innanzitutto va rilevata la sua forte connotazione tonale, evidente
soprattutto nell’accordo di settima minore sul do (secondo
tetracordo) e nella triade di Re minore (con l’aggiunta del Sol Accanto ad altre costruzioni motivico-tematiche non dodecafoniche, l’ostinato viene ripetuto più volte anche nel prosieguo, sostenuto soprattutto da violoncelli e contrabbassi, e svolge dunque un ruolo fondamentale nell’intero movimento. In alcuni casi ritorna alla voce solista, o passa agli strumenti a fiato, mantenendo sempre il suo andamento a canone isortimico, a volte anche con valori raddoppiati (cfr. per esempio cifra 12). La successione di altezze mostrata in precedenza, con la sua alternanza tra momenti in cui la serie viene esposta nella sua totalità e altri in cui essa viene fortemente modificata, è esemplare anche per gli svolgimenti successivi. La serie dodecafonica non ha invece alcuna influenza nella costruzione armonica del movimento. Estendendo il discorso all’intera composizione, va rilevata l’assoluta assenza di serie dodecafoniche nel secondo movimento, mentre nel terzo l’esordio del solista (cifra 4) presenta inizialmente un andamento isoritmico (ottavi in terzina) basato sulla stessa serie del primo movimento, ripreso successivamente, con notevoli modifiche, nella seconda metà del brano (cifra 15). Osservando dunque l’operare di Martin in questa prima composizione in cui il ricorso a mezzi dodecafonici oltrepassa lo sporadico utilizzo di successioni seriali e arriva a informare il decorso del brano, si possono riassumere le seguenti caratteristiche: la serie svolge una funzione tematica; per quanto ampiamente sfruttata, limita la propria azione alla dimensione orizzontale e ha un influsso solo indiretto sull’armonia del brano, che rimane sostanzialmente tonale. A criteri tonali rispondono tutti gli altri temi della composizione; la successione intervallare della serie stessa contiene al suo interno triadi perfette e una predominanza di intervalli consonanti. Martin ricorre ad alcune trasposizioni della serie, ma evita l’impiego delle sue forme derivate (inversione e retrogradazione) per facilitare il più possibile il riconoscimento della sua successione intervallare e quindi accentuarne la valenza tematica. Alla stessa esigenza sembra rispondere anche l’andamento isoritmico, la tendenza a mantenere fissa la direzione ascendente o discendente degli intervalli e ad assegnare più volte la serie allo stesso strumento, garantendo quindi uniformità timbrica. Dopo alcune ripetizioni e trasposizioni esatte, Martin opera alcune variazioni che arrivano a mutare la natura della serie, rivelando così un atteggiamento per nulla rigoroso nei confronti della regola autoimposta. La struttura simmetrica della serie, che potrebbe sembrare a prima vista quasi weberniana, viene sfruttata soltanto localmente, per garantire solidi legami nel passaggio a una successiva trasposizione, ma certamente non ha alcun influsso su altri aspetti del brano e sulla sua disposizione formale. Tra questo approccio alla dodecafonia e il metodo di Schönberg sussistono dunque differenze decisive, tra le quali due appaiono particolarmente significative: la serie dodecafonica nella musica di Martin non è la Grundgestalt del brano e non comporta il passaggio a un contesto atonale. Le istanze che hanno condotto il compositore viennese alla formulazione del suo metodo per uscire dalle aporie dell’atonalità, cioè la necessità di stipulare un nuovo criterio per garantire l’esistenza di nessi logici nella rappresentazione del proprio pensiero musicale in sostituzione del linguaggio tonale, sono totalmente estranei alla poetica di Martin, per il quale invece la tonalità può essere sì integrata ma non sostituita. Come è già stato ampiamente evidenziato e tematizzato nella letteratura sul compositore svizzero, soprattutto da Klein e Billeter e prima ancora da Roman Vlad,[10] l’impiego tematico, limitato alla dimensione orizzontale della serie dodecafonica rappresenta per Martin un arricchimento del proprio linguaggio musicale senza minarne le fondamenta. Nel suo saggio Schönberg et nous del 1947,[11] lo stesso compositore sottolinea questo aspetto in alcuni passi, spesso citati: Il est […] merveilleusement fécond d’écrire en se conformant à une règle stricte, si arbitraire soit-elle, mais à la condition de satisfaire en même temps aux exigences les plus sévères de sa propre sensibilité musicale. C’est ainsi que le règles établies par Schönberg peuvent enrichir notre écriture musicale en rendant notre sensibilité plus aiguë. Le commerce avec les séries va donc nous
apprendre à penser et à écrire dans une langue nouvelle, que
chacun devra constituer pour lui-même. Et la première chose
que nous y apprendrons, c’est à concevoir des mélodies
extrêmement riches, puisqu’elles doivent emprunter les douze
notes de la gamme chromatique avant de redire la première.
La recherche de semblables mélodies nous entraîne hors des
chemins battus de la mélodie tonale ou modale et nous rend
extraordinairement sensible au retour de la mélodie sur elle
même ; ce n’est plus qu’en pleine conscience de sa nécessité
que l’on admet alors semblable retour, avec le sentiment de
violer une règle fondamentale dans un but esthétique bien
défini.[12]
Se dunque la dodecafonia può rappresentare un arricchimento, la condizione indispensabile per l’adozione del metodo risiede secondo Martin nella capacità di evitare un impiego dogmatico, quindi nel suo utilizzo parziale. Il compositore svizzero rifiuta le premesse teoriche di Schönberg, la convinzione che tra consonanza e dissonanza non esista un’opposizione ma soltanto una differenza di grado: le dissonanze sono semplicemente più difficili da comprendere per l’orecchio (perché più distanti dalla fondamentale nella successione degli armonici) ma non per questo meno giustificate in natura.[13] Egli evita di seguire Schönberg sul terreno dell’atonalità, ravvede anzi nella dodecafonia un pericolo, proprio perché permette a chi ne fa uso di stabilire gerarchie eludendo il sistema tonale. Gerarchie che a suo parere sono di fatto illusorie perché non riconoscibili all’ascolto. Su questo aspetto Martin si pronuncia in diverse occasioni, da ultimo in un saggio del 1974: C’est là un ordre, introduit dans l’anarchie de l’atonalisme, qui guide le compositeur dans son travail. Mais est-ce un ordre qui puisse être perçu par un auditeur? Certainement pas. En tout cas le renversement et la récurrence rendent impossible de reconnaître le série par l’oreille. Ainsi je suis convaincu que pour notre sens musical, l’écriture sérielle ne peut pas, par elle-même, donner de l’unité à une œuvre. Y aurait-il une unité que notre raison ne connaît pas?[14] Porterebbe troppo lontano soffermarsi sulla legittimità di questa critica – che ha certamente la sua ragion d’essere ma andrebbe approfondita adeguatamente. Vale invece la pena sottolineare ancora le sue conseguenze per le modalità d’impiego della dodecafonia nel comporre di Martin. Se da un alto le frasi citate confermano i risultati delle analisi precedenti (motivando per esempio la già riscontrata rinuncia all’uso di forme in inversione e retrogrado della serie), offrono dall’altro interessanti spunti teorici per affrontare ulteriori aspetti, spesso trascurati negli studi sul compositore svizzero. Sarebbe infatti fuorviante leggere le asserzioni come una conferma di un impiego della serie esclusivamente limitato alla dimensione orizzontale. Sebbene in modo meno appariscente, Martin estende talvolta il raggio d’azione della serie anche alla dimensione verticale, seguendo modalità, come vedremo, per nulla in contraddizione con le sue dichiarazioni programmatiche. A questo proposito, interessanti elementi possono essere rintracciati in due composizioni molto differenti, il Trio per archi e Der Cornet. Il Trio pour violon, alto et violoncello venne composto nel 1936, quindi ancora all’epoca dell’«intermezzo dodecafonico». Indubbiamente, rispetto alle opere osservate finora, si tratta di una composizione che all’ascolto risulta più dissonante; forse è il brano di Martin in cui l’impiego del metodo dodecafonico si avvicina maggiormente ai dettami di Schönberg, in virtù di un uso quasi esclusivo della serie, ma per questo non più rigoroso. In diverse sezioni, anche piuttosto ampie, di tutti e tre i movimenti, Martin ricorre soltanto al materiale dodecafonico, pur con numerose mutazioni. A tratti, quindi, la serie acquista quella funzione di Grundgestalt del brano che non era assolutamente riscontrabile nelle composizioni esaminate in precedenza. Ancora una volta, però, il metodo dodecafonico non impedisce a Martin di mantenere forti legami con il linguaggio tonale. Questi vengono come sempre garantiti dalla successione intervallare stessa della serie dodecafonica, costruita con una netta predominanza degli intervalli di quarta e quinta giusta nonché di triadi tonali (cfr. Esempio 6).
Esempio 6. Serie del primo movimento e quadrato seriale.
Il primo tetracordo è formato di fatto da un accordo di settima maggiore; le note dall’ottava alla decima formano una triade maggiore, mentre quelle dalla nona all’undicesima una triade minore. Nell’esempio 6 viene riprodotto il quadrato della serie.[15] È necessario sottolineare che la struttura simmetrica del primo tetracordo (ic: -5, +1, -5) comporta ovviamente un’equivalenza tetracordale tra forme seriali in originale e in inversione – per esempio, il primo tetracordo di O1 (pc: 1, 8, 9, 4) equivale all’ultimo di RI11.
Esempio 7. FRANK MARTIN, Trio pour violon, alto et violoncello, Universal Edition 1967, p. 1.
Le prime dodici battute del primo
movimento (cfr. Esempio 7) offrono già numerosi elementi degni di
nota: al violoncello è affidato il solito ostinato isoritmico mentre
violino e viola si spartiscono lenti accordi in minime. La linea del
violoncello presenta inizialmente una costruzione dodecafonica
abbastanza regolare, esponendo dapprima la serie O1 senza
eccezioni, seguita dal primo tetracordo di O4 e dagli
ultimi due di O5. In pratica è una ripetizione trasposta
della serie iniziale leggermente modificata: il primo tetracordo
viene ripetuto a una distanza di terza minore, gli ultimi due a una
distanza di terza maggiore. A battuta 7 inizia uno svolgimento più
libero, sottolineato anche dalla variazione ritmica: le prime cinque
note, fino al fa Un impiego simile, per alcuni aspetti
ancora più caratteristico del comporre di Martin, è rintracciabile
in Der Schrei ,
l’ottavo Lied del ciclo Der Cornet (ovvero
Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph
Rilke ) per contralto e orchestra,
composto nel 1942/1943. Il Lied si apre con tre accordi in andamento
cromatico discendente (Mi
Questo è uno di quei passaggi abbastanza frequenti nella musica di Martin, in cui si potrebbe supporre che l’esaurimento del totale cromatico, così come avviene a battuta 1, sia accidentale o comunque sia stato ottenuto liberamente, senza ricorso a una serie dodecafonica. Come nel caso della successione di settime maggiori nel Trio, le tre triadi perfette sembrano rispondere a criteri affatto diversi da quelli seriali. In questo caso, però, viene in aiuto uno schizzo del compositore, rinvenuto tra i materiali preparatori del Concerto per violoncello e orchestra (1965/1966), che riproduco in trascrizione diplomatica nell’esempio 10.
[N.B.: in questo caso i numeri arabi indicano il numero progressivo di ogni nota nella serie (prima, seconda ecc.) e non la loro classe d’altezza. Si è preferito non intervenire con modifiche nella trascrizione, nonostante il sistema di numerazione di Martin nello schizzo possa generare confusione rispetto a quello adottato negli esempi precedenti].
Lo schizzo offre una chiara conferma di
come anche le triadi perfette iniziali siano il risultato di
operazioni condotte secondo criteri dodecafonici. Nel primo sistema
il compositore scrive la serie (O7) su cui si basa il
solito procedimento dodecafonico e isoritmico a partire dalla cifra
1 (cfr. esempio 9: in queste due pagine di partitura la dodicesima
nota della serie (re) è presente sottoforma di pedale di
basso; O7 viene ripetuta tre volte con trasposizione
d’ottava, seguita da O8 e O10, mentre
l’andamento della voce solista è indipendente dalla disposizione
seriale). Successivamente il compositore ripete la successione
seriale, suddividendola in tre tetracordi, ed estrapola nel sistema
sottostante le triadi perfette (Sol minore, La maggiore, La A completamento di questa panoramica vanno ancora quantomeno menzionate altre importanti composizioni, di molto successive, come per esempio il Concerto per violino del 1950/1951 o il Concerto per violoncello del 1965/1966. Nel primo caso, la fortunata situazione delle fonti autografe conservate, che – come avviene molto raramente nel caso di Martin – documentano copiosamente anche le prime fasi del processo compositivo, ha consentito ad André Baltensperger un’analisi molto approfondita della composizione, che evidenzia anche la centralità di diverse disposizioni dodecafoniche nelle fasi precompositive del lavoro.[16] Purtroppo la situazione delle fonti nel caso del Concerto per violoncello non è altrettanto positiva, anche se alcuni schizzi conservati, di difficile interpretazione, lascerebbero presupporre che anche linee tematiche non dodecafoniche fossero a volte originate a partire da trasformazioni operate su un materiale seriale. In questa sede non verranno analizzati i temi dodecafonici presenti in tutti e tre i movimenti del concerto, in quanto non presentano caratteristiche diverse da quelle osservate finora. In conclusione, vale forse la pena osservare brevemente le caratteristiche della dodecafonia di Martin in un contesto più generale. Sicuramente nessuna innovazione nell’ambito della tecnica compositiva ha avuto nel Novecento un influsso maggiore su contemporanei e generazioni successive del metodo ideato da Schönberg. I motivi del suo notevole successo vanno cercati nella sua estrema praticità. È risaputo che Schönberg non fu né il primo né l’unico a cercare nell’esaurimento del totale cromatico una soluzione ai problemi compositivi insorti ai primi del Novecento. Ma altri tentativi, come per esempio quello di Josef Mathias Hauer ebbero un impatto praticamente nullo a causa della loro scarsa applicabilità. Con il suo "metodo di comporre con dodici note in rapporto soltanto l’una con l’altra" Schönberg ha ideato una tecnica estremamente pratica, di facile adozione soprattutto se non impiegata in modo esclusivo (che, tra l’altro, dopo il 1933 assunse anche connotati rilevanti politicamente di resistenza al Nazionalsocialismo). È anche vero che la ricezione della dodecafonia mostra in ogni compositore tratti assolutamente diversi; è sufficiente confrontare, per fare un esempio, il Concerto per violino di Alban Berg e qualsiasi composizione dodecafonica di Anton Webern. Può sembrare paradossale, ma di fatto il metodo dodecafonico è anche estremamente malleabile. Se si escludono Webern, Ernst Křenek e naturalmente lo stesso Schönberg, è difficile trovare compositori che negli anni Trenta e Quaranta abbiano adottato il metodo dodecafonico sfruttandone appieno e con rigore le sue potenzialità strutturanti. Hanns Eisler e Paul Dessau ne fanno un uso molto più limitato, nel senso che operano delle scelte per circoscrivere il materiale utilizzabile. Wladimir Vogel e Luigi Dallapiccola non rinunciano e inserire elementi dodecafonici in contesti tonali, a volte seguendo procedimenti abbastanza simili a quelli di Martin. Stephan Wolpe inizia già verso la metà degli anni Trenta a derivare dalla serie, operando varie trasformazioni in sede precompositiva, un repertorio di altezze o intervalli poi effettivamente utilizzati nella composizione, inaugurando una tendenza che sarà poi tipica della ricezione della dodecafonia negli Stati Uniti e in Italia (ad esempio in Bruno Maderna e Luigi Nono). Dal metodo ideato da Schönberg è scaturito negli anni Trenta e Quaranta un autentico ‘pensiero dodecafonico’, cioè una propensione condivisa da molti compositori a cercare nell’esaurimento del totale cromatico regolato da una serie una possibile soluzione a determinati problemi compositivi oppure un arricchimento del proprio linguaggio musicale. Pur nel suo impiego parziale dei procedimenti dodecafonici, Martin ha preso a parte a pieno titolo a questo processo. D’altronde, come lo stesso compositore aveva lucidamente espresso in un saggio del 1947, «Cette technique parlera alors une autre langue que celle de son initiateur, chacun la façonnera selon son tempérament».[17]
|
||||||||
|
||||||||
|
||||||||
Copyright 2008 © Università degli Studi di Pavia | ||||||||
Dipartimento di Scienze musicologiche e paleografico-filologiche – Facoltà di Musicologia |