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MAURIZIO
PISATI Inventare
e segnare utopie Libenter impartio mea, non gravatim accipio meliora. Volentieri
dico ciò che ho fatto, senza ripugnanza accetto cose migliori. (da Utopia di Thomas More,
versi di T. More e Pietro Gilles) Il
mio intervento si inserisce nell’ultima giornata di Convegno, dedicata alle problematiche
compositive nei vari generi musicali, loro tradizioni, consuetudini, pratiche
di pensiero e scrittura. L’argomento rende inevitabile l’utilizzo di categorie
più o meno reali per distinguere i compositori -come sottolinea subito Gianmario
Borio - attraverso perifrasi e artifici lessicali, talvolta per esprimere concetti
simili da angolazioni diverse, talaltra forse per una ancora insufficiente coscienza
comune o per una originaria mancanza di termini adeguati a descrivere qualcosa
-la composizione in genere- che non nasce da concetti metodologici. L’argomento
che primo mi viene sottoposto è quello delle influenze che un autore della nostra
generazione può aver avuto dalla crescente circolazione di più generi musicali
e in particolare da quella musica genericamente definita progressive rock, sia nella sua produzione
musicale sia nelle sue procedure di composizione, composizione collettiva, improvvisazione. La carta è un teatro Affronterò
l’argomento nella sua interezza durante tutto il mio intervento e non solo in
questa prima parte, ma intanto suggerisco, per agevolare la comprensione del mio
discorso e memore della lezione stravinskiana, di utilizzare il termine invenzione
e chiamare il compositore: “inventore di musica”. Vedo l’invenzione
come conseguenza di una necessità, per soddisfare la quale si utilizzano spesso
diverse modalità di lavoro. L’influenza
di “altre” musiche è stata ed è, per quanto mi riguarda, la più ampia possibile,
totale: l’inventore è in questo caso forte della presunzione che esista in musica
qualcosa di ancora non detto nel modo in cui lui la direbbe. Ho riconosciuto quindi
in ogni autore studiato elementi di ciò che già cercavo componendo una musica,
di volta in volta scegliendo o ideando una notazione adeguata. Fossi uno scrittore
la partenza sarebbe forse inversa (ma anche qui, il “forse” è la cosa più certa
di tutta la frase), ad ogni modo il compositore non è scrittore e la sua invenzione nasce in
forma interiore indicibile, cioè oltre la possibilità del dire ed eventualmente
dello scrivere. Il concetto stesso di scrittura si è talmente evoluto
che trovo sempre riduttivo riferirmi ad esso solo come a un processo di segnatura,
registrazione o cifratura sulla carta di un pensiero. Ad
esempio nessuno riesce mai a dire con esattezza -perchè non esiste questa illusoria
precisione- quando cominci la scrittura di un testo o di una musica. Sarebbe ingenuo
leggere il primo segno in partitura come “vero” inizio: è piuttosto l’incipit
di una sua rappresentazione -vista da questa angolazione la
carta è un teatro- ma l’inizio del suo pensiero (non l’origine, dico
proprio l’inizio) è comunque nascosto o svelato quasi sempre in tempi diversi
e altrove. Altrettanto per la
musica: quando comincia una musica? Per l’ascoltatore, che può stare ad occhi
chiusi, comincia con la prima nota. Ma il musicista, che magari inizia “in levare”,
in realtà parte prima col silenzio di un respiro numerico. E così via: il direttore
comincia ancora prima, mentre il compositore, prima di tutti, ha già finito e
certo non ha iniziato a comporre dalla prima nota. A partire da questa coscienza,
ecco come ogni “influenza”- sia per me una occasione di ricerca, di convergenza,
sviluppo. Studio. Ho incontrato così Leoninus e il rock senza differenza:
da musicista individuo rapidamente le differenze tecniche, ma non le ritengo centrali
e quindi, al di là di queste, più che dire quale autore o gruppo rock mi abbia
influenzato direi come ciò sia avvenuto, e cioè senza attenzione
per generi o stili, bensì con una fruizione da subito totale e finalizzata all’assorbimento. Musica finita e infinita Alcuni
interventi del pubblico suggeriscono poi una distinzione tra compositori che operano
direttamente sul suono e compositori “compositori”, intendendo con ciò - immagino,
e ammesso che esistano - coloro che prima scrivono e poi ascoltano. Considero
riduttive e obsolete queste categorizzazioni, al pari di un’altra che viene ora
proposta: quella tra musica finita
(partitura) e aperta, o tra musica finita immodificabile (disco) e in progress (che può essere ancora eseguita
e modificata, non riprodotta tale e quale). Avverto quasi una vena accademica
in questi pensieri apparentemente volti a liberare la musica dalla scrittura,
come considerassero la notazione una catena anzichè una ulteriore opportunità.
Per il compositore questo dovrebbe essere ovvio in partenza. E allora
aggiungo: se Beethoven fosse di nuovo tra noi, non si vieterebbe certo di modificare
le proprie musiche adeguandole all’acustica degli spazi, al loro riverbero naturale,
alla dislocazione del pubblico, tutte cose che sono mutate nei secoli, esattamente
come dopo di lui hanno fatto e fanno Luigi Nono, Frank Zappa, Karlheinz Stockhausen
e... quasi tutti gli altri. Una stessa traccia audio preregistrata non è “finita”.
Facciamo la musica eseguendola, ma anche ascoltandola: grazie a ciò possiamo ancora
godere di Beethoven, con nuove interpretazioni e possibilità di comprensione,
in una vitalità che si arricchisce del mutare dei tempi. La
facoltà di variare i parametri in gioco, pare quindi talvolta ancora legata all’idea
di un testo intoccabile a posteriori, o realmente finito. Sorprende poi che quanto più questi
concetti vadano sparendo dal pensiero del compositore “classico”, tanto più cresca,
negli “altri” o in molti divulgatori giornalistici e addirittura in alcuni studiosi,
l’equivoco di cui sopra: si vuole una musica finita e una in divenire, dove la
presunta stabilità e affidabilità del segno scritto è considerato vincolo e freno
all’invenzione. Ripeto, quasi un’accademia rovesciata, che si spinge
talvolta a supporre l’assenza di feedback
nella scrittura. Così si confondono composizione e scrittura, ma si dimostra solo
di non aver frequentato - non è una mancanza, solo una differenza - i lati più
antichi, interiori e creativi di quell’atto profondo e ricco proprio di feedback
che è la scrittura di un suono. Talvolta
poi, parole e fatti si contraddicono, quasi sempre a favore di questi ultimi:
un aspetto che mi ha sempre colpito è proprio il fatto che i musicisti pop e rock
usavano e oggi ancor di più utilizzino le scritture, siano esse su carta, computer
o ambedue, con le notazioni più disparate. Quale livello di notazione
raggiungano non ha di fatto alcuna importanza, basti solo dire che anche qui l’atto
di scrivere, segnare, cifrare, registrare, disegnare un suono, interviene a mediare.
La musica eseguita torna poi a perfezionare il segno scritto e così via, in una
mediazione reciproca e in continuo divenire. Non è certo questa una scrittura
di seconda classe. Certo tutto ciò non è neppure la musica. Stiamo ragionando
sulla sua nascita e i suoi passaggi dal pensiero e dalla pratica all’ascolto.
Siamo “solo” in una delle possibili fasi di invenzione, che è una pratica estranea
alle scale di valore e che unicamente persegue un risultato. La musica. L’invenzione
è lo spazio di un secondo, o di anni, può nascere in un respiro o su mille fogli
e in queste differenze non vi è alcuna distinzione di qualità. 1
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