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Pisati

Composizione e sperimentazione nel rock britannico 1967-1976

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MAURIZIO PISATI

Inventare e segnare utopie


Libenter impartio mea, non gravatim accipio meliora.
Volentieri dico ciò che ho fatto, senza ripugnanza accetto cose migliori
.
(da Utopia di Thomas More, versi di T. More e Pietro Gilles)

Il mio intervento si inserisce nell’ultima giornata di Convegno, dedicata alle problematiche  compositive nei vari generi musicali, loro tradizioni, consuetudini, pratiche di pensiero e scrittura. L’argomento rende inevitabile l’utilizzo di categorie più o meno reali per distinguere i compositori -come sottolinea subito Gianmario Borio - attraverso perifrasi e artifici lessicali, talvolta per esprimere concetti simili da angolazioni diverse, talaltra forse per una ancora insufficiente coscienza comune o per una originaria mancanza di termini adeguati a descrivere qualcosa -la composizione in genere- che non nasce da concetti metodologici.
L’argomento che primo mi viene sottoposto è quello delle influenze che un autore della nostra generazione può aver avuto dalla crescente circolazione di più generi musicali e in particolare da quella musica genericamente definita progressive rock, sia nella sua produzione musicale sia nelle sue procedure di composizione, composizione collettiva, improvvisazione.

La carta è un teatro

Affronterò l’argomento nella sua interezza durante tutto il mio intervento e non solo in questa prima parte, ma intanto suggerisco, per agevolare la comprensione del mio discorso e memore della lezione stravinskiana, di utilizzare il termine invenzione e chiamare il compositore: “inventore di musica”.
Vedo l’invenzione come conseguenza di una necessità, per soddisfare la quale si utilizzano spesso diverse modalità di lavoro.
L’influenza di “altre” musiche è stata ed è, per quanto mi riguarda, la più ampia possibile, totale: l’inventore è in questo caso forte della presunzione che esista in musica qualcosa di ancora non detto nel modo in cui lui la direbbe. Ho riconosciuto quindi in ogni autore studiato elementi di ciò che già cercavo componendo una musica, di volta in volta scegliendo o ideando una notazione adeguata.
Fossi uno scrittore la partenza sarebbe forse inversa (ma anche qui, il “forse” è la cosa più certa di tutta la frase), ad ogni modo il compositore non è scrittore e la sua invenzione nasce in forma interiore indicibile, cioè oltre la possibilità del dire ed eventualmente dello scrivere.
Il concetto stesso di scrittura si è talmente evoluto che trovo sempre riduttivo riferirmi ad  esso solo come a un processo di segnatura, registrazione o cifratura sulla carta di un pensiero.
Ad esempio nessuno riesce mai a dire con esattezza -perchè non esiste questa illusoria precisione- quando cominci la scrittura di un testo o di una musica. Sarebbe ingenuo leggere il primo segno in partitura come “vero” inizio: è piuttosto l’incipit di una sua rappresentazione -vista da questa angolazione la carta è un teatro- ma l’inizio del suo pensiero (non l’origine, dico proprio l’inizio) è comunque nascosto o svelato quasi sempre in tempi diversi e altrove.
Altrettanto per la musica: quando comincia una musica? Per l’ascoltatore, che può stare ad occhi chiusi, comincia con la prima nota. Ma il musicista, che magari inizia “in levare”, in realtà parte prima col silenzio di un respiro numerico. E così via: il direttore comincia ancora prima, mentre il compositore, prima di tutti, ha già finito e certo non ha iniziato a comporre dalla prima nota.
A partire da questa coscienza, ecco come ogni “influenza”- sia per me una occasione di ricerca, di convergenza, sviluppo. Studio.
Ho incontrato così Leoninus e il rock senza differenza: da musicista individuo rapidamente le differenze tecniche, ma non le ritengo centrali e quindi, al di là di queste, più che dire quale autore o gruppo rock mi abbia influenzato direi come ciò sia avvenuto, e cioè senza attenzione per generi o stili, bensì con una fruizione da subito totale e finalizzata all’assorbimento.

Musica finita e infinita

Alcuni interventi del pubblico suggeriscono poi una distinzione tra compositori che operano direttamente sul suono  e compositori “compositori”, intendendo con ciò - immagino, e ammesso che esistano - coloro che prima scrivono e poi ascoltano.
Considero riduttive e obsolete queste categorizzazioni, al pari di un’altra che viene ora proposta: quella tra musica finita (partitura) e aperta, o tra musica finita immodificabile (disco) e in progress (che può essere ancora eseguita e modificata, non riprodotta tale e quale).
Avverto quasi una vena accademica in questi pensieri apparentemente volti a liberare la musica dalla scrittura, come considerassero la notazione una catena anzichè una ulteriore opportunità.

Per il compositore questo dovrebbe essere ovvio in partenza. E allora aggiungo: se Beethoven fosse di nuovo tra noi, non si vieterebbe certo di modificare le proprie musiche adeguandole all’acustica degli spazi, al loro riverbero naturale, alla dislocazione del pubblico, tutte cose che sono mutate nei secoli, esattamente come dopo di lui hanno fatto e fanno Luigi Nono, Frank Zappa, Karlheinz Stockhausen e... quasi tutti gli altri.
Una stessa traccia audio preregistrata non è “finita”. Facciamo la musica eseguendola, ma anche ascoltandola: grazie a ciò possiamo ancora godere di Beethoven, con nuove interpretazioni e possibilità di comprensione, in una vitalità che si arricchisce del mutare dei tempi.
La facoltà di variare i parametri in gioco, pare quindi talvolta ancora legata all’idea di un testo intoccabile a posteriori, o realmente finito. Sorprende poi che quanto più questi concetti vadano sparendo dal pensiero del compositore “classico”, tanto più cresca, negli “altri” o in molti divulgatori giornalistici e addirittura in alcuni studiosi, l’equivoco di cui sopra: si vuole una musica finita e una in divenire, dove la presunta stabilità e affidabilità del segno scritto è considerato vincolo e freno all’invenzione.
Ripeto, quasi un’accademia rovesciata, che si spinge talvolta a supporre l’assenza di feedback nella scrittura. Così si confondono composizione e scrittura, ma si dimostra solo di non aver frequentato - non è una mancanza, solo una differenza - i lati più antichi, interiori e creativi di  quell’atto profondo e ricco proprio di feedback che è la scrittura di un suono.
Talvolta poi, parole e fatti si contraddicono, quasi sempre a favore di questi ultimi: un aspetto che mi ha sempre colpito è proprio il fatto che i musicisti pop e rock usavano e oggi ancor di più utilizzino le scritture, siano esse su carta, computer o ambedue, con le notazioni più disparate.
Quale livello di notazione raggiungano non ha di fatto alcuna importanza, basti solo dire che anche qui l’atto di scrivere, segnare, cifrare, registrare, disegnare un suono, interviene a mediare.  La musica eseguita torna poi a perfezionare il segno scritto e così via, in una mediazione reciproca e in continuo divenire. Non è certo questa una scrittura di seconda classe.
Certo tutto ciò non è neppure la musica. Stiamo ragionando sulla sua nascita e i suoi passaggi dal pensiero e dalla pratica all’ascolto. Siamo “solo” in una delle possibili fasi di invenzione, che è una pratica estranea alle scale di valore e che unicamente persegue un risultato. La musica. L’invenzione è lo spazio di un secondo, o di anni, può nascere in un respiro o su mille fogli e in queste differenze non vi è alcuna distinzione di qualità.

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1. Introduzione / La carta è un teatro / Musica finita e infinita


2. La musica nasce altrove / ZONE-TARKUS/ZONE
popTRAIN /
Conclusione e utopia

 

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