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CHRIS
CUTLER
Workshop
– “Le
tecniche compositive nei gruppi progressive rock”
(*)
Con
gli Henry Cow il metodo cambiava, come è stato detto per i Soft Machine,
a seconda della persona che componeva. Probabilmente la cosa più interessante
a proposito del gruppo è che effettivamente avevamo tutti background
completamente diversi. Persone in realtà del tutto incompatibili le une
con le altre erano riuscite a mettersi insieme e a trovare un linguaggio
musicale che li teneva uniti. L’altra cosa da dire è che il metodo compositivo
e la composizione sono cambiate tantissimo, a volte radicalmente, nel
corso del tempo.
I quattro compositori principali erano Lindsay Cooper, Fred
Frith, John Greaves e Tim Hodgkinson.
Frith aveva si era formato con la musica folk, suonava la chitarra acustica
nei pub; poi ha iniziato a suonare, come me, in gruppi che suonavano musica
degli Shadows e soul. Invece Hodgkinson era assolutamente immerso
nel jazz e in particolar modo nel free-jazz dell’inizio degli anni Sessanta,
quindi Coleman. Greaves suonava nel gruppo di suo padre, in Galles, musica
da ballo e da spettacolo. Cooper aveva studiato alla Julliard e aveva
una formazione musicale assolutamente completa.
Il metodo compositivo che è stato utilizzato per tutta l’esistenza del
gruppo consiste nel fatto che uno dei musicisti arrivava con una partitura
scritta; il livello di completezza di questa partitura dipendeva dal musicista,
in alcuni casi essa era finita, in altri non ancora completa.
Nei
primi anni del gruppo Fred predisponeva una sorta di scheletro di partitura
dove c’erano riff, sezioni ripetute e spazi per gli assolo: usava
spesso il vocabolario della musica rock. Però Fred era anche quello che
tra di noi era più influenzato dalla scuola di New York, specialmente
da John Cage e da Morton Feldman. Per esempio, l’inizio piuttosto orecchiabile
del primo brano del primo disco fu composto utilizzando il metodo stocasico
e processi aleatori. Fred componeva sempre con uno schema mentale abbastanza
preciso ma non sempre udibile nel pezzo.
Nel
nostro secondo album il pezzo scritto completamente da lui, Ruins,
si basava sulla serie di Fibonacci, la sezione aurea, e la forma globale
è a specchio. Inizia con la batteria che emerge all’interno di una melodia
basata sulla serie di Fibonacci, poi c’è l’assolo di chitarra, di 55 unità
temporali suddivise a diverse distanze, con soli due accordi. La sezione
centrale, scritta per viola e fagotto con interruzioni di xilofono, basso
e rullante - ha il suo principale punto di riferimento in relazioni ritimiche
di 5:4 rimanendo nello stesso metro; se prendiamo per esempio un certo
segmento di tempo,l allora troviamo un musicista che lo suddivide in quattro
unità uguali, mentre l’altro ne suona cinque. Quando ha raggiunto il centro,
il pezzo vira e torna completamente indietro. C’è poi un’altra sezione,
ancora di 55 battute, dove suona l’organo.
Questo per dire che Fred ha sempre composto sulla base di
una struttura estremamente guidata e pianificata, c’erano sempre delle
idee ben definite: nel secondo pezzo a cui facevo riferimento c’erano
delle idee che si basavano sui numeri, nel primo una serie di processi
aleatori e altri correlati alla sua conoscenza della scuola di New York,
anche se l’impressione sonora per gran parte del tempo era quella che
può dare la musica rock.
Invece Tim invece, il fanatico di jazz, arrivava con partiture
assolutamente complete, scritte dall’inizio alla fine. Nei brani di Tim
sin dall’inizio non ci sono mai stati né assoli, né riff. Era rarissimo
che ci fossero due battute una accanto all’altra con lo stesso metro.
Tim componeva con un approccio melodico, contrappuntistico, con battute
molte lunghe, rotte dai cambiamenti metrici. Ed era difficilissimo impararle.
Tra l’altro Henry Cow era un gruppo in cui era assolutamente vietato andare
sul palco con della musica scritta. E quindi ci toccava impararla a memoria.
Per esempio il primo pezzo di Tim durava quindici minuti, era tutta musica
in contrappunto, molto complessa, una partitura scritta da cima a fondo
che abbiamo dovuto imparare a memoria. Tim non scriveva mai due battute
uguali, usava sempre ritmi additivi, molto spesos su tre livelli ritmici
e melodici che contraddicevano la battuta; per esempio, se la battuta
era in 5, uno la suddivideva in 5, un altro la suonava in 7, 9 o altre
suddivisioni; ogni intervento doveva essere assolutamente al posto giusto,
altrimenti il pezzo non veniva fuori.
Lindsay era una via di mezzo tra Tim e Fred. Infatti anche
a lei non piaceva avere due battute uguali una accanto all’altra, però
a volte inseriva delle ripetizioni. Sebbene inserisse raramente degli
assoli, c’erano sezioni che venivano ripetute, così a volte si ha una
forma ABA. Come Fred, realizzava partiture schematicamente complete, ma
non tutte le parti erano fissate per iscritto e dunque c’era un certo
grado di libertà.
La regola era che il compositore non era mai proprietario
del brano quando lo presentava al resto del gruppo e si cominciava a lavorarci
sopra. Questo significa che durante le prove chiunque poteva dire: “Questa
parte non mi piace, togliamola”, oppure “Spostiamo questa parte vicino
a quest’altra”, e il compositore doveva semplicemente accettare questa
situazione.
Con
il trascorrere del tempo le sezioni ripetute e gli assoli scomparvero
dal nostro repertorio e quando, durante i concerti, si sentivano gli assoli
e sezioni ripetute, vuol dire che stavamo suonando brani del nostro vecchio
repertorio. Come i Soft Machine, ai quali avevamo rubato l’idea: anche
per noi il concerto doveva rappresentare una macro-struttura; creavamo
una scaletta e poi cercavamo di collegare tra loro i brani in modo tale
che si potesse evitare di fermarsi, quindi si suonava anche per un’ora
consecutivamente. Pertanto capitava che a uno di noi venisse assegnato
il compito di scrivere un ponte da inserire tra due pezzi, che magari
venivano suonati solo una o due volte; per il concerto successivo, per
rendere nuovamente la cosa interessante, questo brano veniva eliminato
e sostituito con dei brani-ponte nuovi.
Per riassumere: la partitura arrivava a volte completa, a
volte no, e su questo materiale lavoravamo collettivamente. Le partiture
di Tim in genere non cambiavano per niente, quelle di Fred e Lindsay invece
subivano qualche modifica, il lavoro da fare insieme era quello di collegare
i pezzi con questi brani-ponte e di organizzare tutto per il concerto.
Ci sono tre eccezioni di cui vorrei parlare rapidamente.
La prima eccezione c’è stata quando dovevamo organizzare
un tour in Olanda e Lindsay Cooper era malata, quindi dovevamo
cercare di inventarci qualche cosa per coprire la sua assenza. Non avevamo
materiale sufficiente, anche perché senza sassofono o fagotto mancavano
delle parti. In quell’occasione Tim stava componendo un brano, di cui
aveva scritto i primi due minuti e mezzo. A questo punto decidemmo di
andare a trascorrere una settimana in una casa nello Yorkshire e da questi
due minuti e mezzo che aveva scritto Tim abbiamo tirato fuori cinquanta
minuti di musica. Questo è stato un lavoro collettivo. Quelle che abbiamo
fatto è stato in pratica scomporre in frammenti minimi il materiale composto
da Tim, e ne abbiamo ripetuto alcune parti. C’era una struttura logica
molto forte, ma tutto discendeva da una quantità piccolissima di materiali.
Pertanto è molto interessante ascoltare questo brano dal punto di vista
tematico Ed è stato uno dei pochissimi casi in cui abbiamo utilizzato
dei bordoni per buona parta del brano.
Il brano era diviso in cinque sezioni. Le sezioni 1, 3 e 5
erano basate sul materiale di Tim con una persona che eseguiva dei brevi
assoli, sempre basati sullo stesso materiale. Mentre le sezioni 2 e 4
duravano 8-9 minuti ciascuna e ed erano completamente piatte. La sezione
2 era stata strumentata per una chitarra elettrica che veniva suonata
con un prisma, con grosse sfere di vetro, un basso che era stato preparato
bloccando le corde con delle mollette. Intanto Tim teneva la nota di bordone.
Nell’altra sezione era come se ci fosse qualcuno che buttasse per terra
un grosso vassoio pieno di sfere di metallo, per otto minuti, senza nessun
altro evento.
La
seconda eccezione c’è stata quando si trattava di registrare il secondo
disco per la Virgin e non avevamo materiale sufficiente. Tra l’altro Lindsay
era appena entrata nel gruppo, quindi non potevamo suonare il materiale
preparato precedentemente; in più le avevamo appena tolto due denti del
giudizio. Il primo disco era stato creato come succedeva con i gruppi
più tradizionali, cioè avevamo semplicemente documentato in studio di
registrazione quello che sapevamo suonare e che avevamo suonato diverse
volte. Lavorando per la prima volta in quell’occasione in uno studio di
registrazione ci fu immediatamente chiaro che lo studio stesso era uno
strumento compositivo ricchissimo. Quindi l’intero secondo lato di quel
disco fu costruito collettivamente, sfruttando appieno tutte le possibilità
che ci venivano date dalle tecnologie di registrazione.
Era stato detto più volte correttamente che la tecnologia
di registrazione rende qualsiasi suono disponibile per un uso creativo,
ovvero si può lavorare con qualunque suono. Ma una cosa che viene considerata
meno era che in studio eravamo in grado di registrare delle vere e proprie
performance. Quindi lo studio da’ al musicista la possibilità di comporre
usando delle performance. Il che non suona assolutamente radicale oggi,
ma era abbastanza insolito nel 1973.
Lavoravamo in modi diversi. In alcuni casi improvvisavamo,
ascoltavamo l’improvvisazione e editavamo le parti che ci piacevano. Consideravamo
il pezzo editato come base per parti scrttie da destinare alla composizione;
poi prendevamo improvvisazioni e strutture di base e improvvisavamo o
scrivevamo parti su questo materiale per farlo suonare come una composizione,
per alimenatare la composizione.
Abbiamo
anche lavorato parecchio facendo loop, ricavati da precedenti composizioni.
C’è un pezzo in particolare che utilizza un loop di cinquanta secondi,
il cui nastro si estendeva letteralmente per tutto lo studio, attorno
a bottiglie e aste di microfoni – il che, bisogna dire, rallentava il
nastro stesso, abbassando l’altezza del loop di tre semitoni. Una
volta creato questo loop aggiungevamo poco alla volta le altre
parti. Per arrivare a creare una vera e propria struttura abbiamo ripreso
parte di una melodia del lato A del disco, che era già stata scritta,
suonandola a velocità dimezzata e aggiungendo delle parti che erano invece
state registrate a velocità raddoppiata, e abbiamo creato una dissolvenza
incrociata che copre lo spazio di circa sei minuti; così prima si ha una
sezione con il loop, e poi la melodia e iol resto emergono molto
lentamente. Questo è il metodo compositivo che funziona grazie all’ascolto.
E non prevedeva alcuna discussione: se qualcuno soltanto suggeriva - “Questo
mi sembra interessante” - lo si registrava su nastro per vedere come
suonava.
Alcune delle nostre composizioni, per esempio quelle di Tim
e Lindsay, ma più tardi anche quelle di Fred, erano molto rigide. E comunque
in ogni concerto avevamo sempre circa un 40% di improvvisazione libera,
non generica, non idiomatica. Noi ci permettevamo una cosa che molti improvvisatori
jazz all’epoca non facevano: improvvisare con i generi, mescolare i generi.
Frank Zappa lavorava così, ma era quasi l’unico, perché era considerato
vietato, anche il jazz era jazz, anche quando era free c’erano
cose che tu non potevi fare. E poi c’era l’improvvisazione europea, che
non era free-jazz, era un po’ come la scuola di Darmstadt, non
c’era melodia, non cera armonia, non c’era ritmo, sicuramente non c’era
una pulsazione. Questo è stato importante per noi perché questi pezzi
composti ci hanno costretto a imparare tutta una serie di tecniche diverse
che altrimenti non avremmo potuto conoscere. E queste tecniche, una volta
acquisite, ebbero un’impatto sulle nostre improvvisazioni.
Era vero anche il contrario, quello che emergeva dalle improvvisazioni
riusciva ad essere memorizzato e poteva ricomparire nelle composizioni
successive. Ed è importante vedere come questi due elementi confluivano
costantemente l’uno nell’altro.
La terza eccezione, brevemente. Anche in questo si trattava
che non poterono partecipare a una tournée ed eravamo in Scandinavia.
Abbiamo deciso ad un certo punto di lanciarci in un programma di tutta
improvvisazione di minimo due ore, assolutamente al buio. Avevamo tre
punti fissi. All’inizio avevamo soltanto un tamburo nel quale si cantava
e un flautino di legno. Perché questi erano veramente gli strumenti originari,
i più primitivi, e quindi abbiamo deciso di iniziare con questi, tamburo
e flauto. Trascorso circa il 40% del tempo c’era la parte centrale ed
era una parte riguardante un matrimonio, con l’uso delle tubular bells.
Verso la fine c’era una sorta di marcia scritta da Fred, piuttosto strana
da punto di vista ritmico e metrico. E per tutto il brano, tutti noi pensavamo
a una sorta di evoluzione, a un qualche tipo di sviluppo, un’idea che
avevamo preso da Karlheinz Stockhausen.
Tutti avevano tre nastri preregistrati, di due ore. Se non
ricordo male Lindsay aveva due ore nastro con registrazioni dall’infanzia
alla vecchiaia, quindi suoni di persone dal bambino appena nato fino al
vecchio. Tim aveva due ore di nastro con la musica più antica che era
riuscito a trovare a quella più contemporanea. Fred aveva il materiale
di Henry Cow dalla formazione iniziale del gruppo fino a quel momento.
Era materiale che ogni singolo musicista poteva ascoltare quando era in
difficoltà, se non aveva nient’altro a cui fare riferimento si rivolgeva
al nastro. O, a volte, tramite un pedale, potevano farlo ascoltare al
pubblico.
Penso che si trattasse di “Stockhoven, Beethausen”, ma il
primo che a nostro avviso aveva elaborato l’idea era Stockhausen. Per
me questa era una strategia compositiva. Suppongo di poter aggiungere
un’ultima cosa.
Penso che gli Henry Cow e i Soft Machine avessero entrambi
influenze contemporanee, facenti riferimento al XX secolo. Sicuramente,
a parte il free-jazz, Janacéck e Bartók, e in parte Schoenberg, erano
influenze chiaramente udibili all’interno della nostra musica. Il metodo
della scuola di New York non era necessariamente riconoscibile nei nostri
brani, ma era sicuramente qualcosa da cui abbiamo provato a trarre insegnamento.
Così come pure quello che stava succedendo nella scena nera americana
e quello che suonavano gli AMM o nella musica elettronica. E in effetti
queste strategie erano molto diverse da quelle utilizzate da molti dei
gruppi di cui si è parlato durante questo convegno, che tendevano a essere
meno appartenenti al proprio tempo e più legate a modelli del tardo Ottocento.
Il
progressive rock è stato influenzato, come dicevo prima, dalla musica
contemporanea e dalle arti visive, questo era in contrapposizione con
l’altra parte dei gruppi, che si ispiravano più alla musica della fine
dell’Ottocento. Sono stati proprio questi che hanno fatto riferimento
ai compositori russi di questo periodo ad essere chiamati progressive
rock per primi. Secondo me, proprio perché arrivavano alla fine del XX
secolo, erano più regressivi che progressivi.
Il cambiamento, per la mia generazione, è avvenuto dopo la
seconda metà degli anni Sessanta; in Inghilterra, per motivi abbastanza
chiari. Perché era la generazione che era cresciuta ascoltando pop alla
radio o comprando i dischi, e questa era la generazione del benessere,
dopo la seconda guerra mondiale. La maggior parte di noi non aveva alcuna
formazione musicale, però volevamo fare parte di una band. In realtà avevamo
iniziato a suonare semplicemente ritrovandoci insieme a casa di qualcuno,
suonando degli strumenti, in genere cercando di seguire e di copiare un
disco.
Tra l’altro suonavamo anche degli strumenti “proibiti”, che
non erano veramente considerati strumenti musicali perché erano elettrici.
Una forma di musica fino ad allora ignorata, in un certo senso. Non c’erano
accademie, non c’erano regole, non c’era nessuno che ci potesse dire come
andavano fatte le cose. Per esempio in Inghilterra c’è stato il fenomeno
dello “skiffle”, una musica davvero semplice: si poteva suonare lo “skiffle”
senza nessuno strumento particolarmente costoso.
Poi
sono arrivate le chitarre e i bassi elettrici. Ad esempio, prima di diventare
famosi, gli Shadows erano un gruppo skiffle. Come ha detto Franco [Fabbri]
nella sua relazione, dal punto di vista musicale c’è stato davvero un
autentico processo educativo, con l’uso della chitarra solista: c’era
la linea di basso, la chitarra ritmica e la linea melodica, e infine la
batteria che teneva il ritmo. La chitarra rappresentava uno strumento
completamente nuovo proprio perché era elettrica, si potevano produrre
suoni sempre diversi semplicemente cambiando le impostazioni dell’amplificatore
o suonando a distanze diverse dal ponticello. E, come è stato detto, la
natura fisica del suono è straordinariamente importante. In effetti in
Inghilterra è possibile seguire in senso temporale il passaggio dallo
skiffle ai gruppi dove la chitarra era lo strumento principale, per poi
arrivare al rhythm’n’blues che veniva dall’America, dove i musicisti che
avevano imparato le basi suonando musica strumentale e da spettacolo
vennero a contatto con il blues, che era molto più rude e grezzo.
Per rispondere anche alla domanda precedente: effettivamente
tutte le volte che si sentiva un suono nuovo immediatamente si voleva
sapere come quel suono era stato prodotto, tutte le volte che si vedeva
un musicista nuovo fare qualcosa di particolarmente ben fatto si diceva:
“Devi andare a vedere quel gruppo; hanno un bassista eccezionale”. A un
certo punto i musicisti hanno cominciato a diventare più competenti e
hanno iniziato a copiare cose più interessanti di assoli di chitarra o
dei musicisti blues.
Siccome non c’era nessuno che ci dicesse come fare le cose,
e siccome noi eravamo molto ambiziosi e non appartenevamo a nessuna comunità
musicale particolare se non quella che si riuniva intorno al giradischi,
eravamo voraci, ascoltavamo qualsiasi cosa si riuscisse a recuperare.
Raggiunto un certo livello tecnico, ascoltare del jazz, musica classica
o qualche registrazione di musica proveniente da paesi lontani, diventava
interessante perché potevamo dire: “Questo è interessante, potremmo provare
a utilizzarlo perché siamo in grado di farlo da un punto di vista tecnico”,
allora questi generi sono entrati nel vocabolario della pop music.
C’è stato un progresso naturale, siamo passati dal copiare
gruppi che ci piacevano a introdurre qualcosa di nuovo nel nostro vocabolario.
Questo è diventato un valore positivo perché si poteva innovare,
introdurre qualcosa di nuovo. Sotto quest’aspetto eravamo serissimi riguardo
alla sperimentazione e all’innovazione, perché questa era la lingua dei
tuoi pari, eri al passo con i tempi solo facendo qualcosa che nessuno
aveva mai fatto prima: il campo era completamente aperto. Se guardiamo
a Frank Zappa negli Stati Uniti, vediamo che lui ha raccolto tutti gli
stili musicali, senza fare alcuna distinzione tra di loro. In Inghilterra,
perlomeno nella comunità in cui mi trovavo io, questo era molto importante
perché ci dava licenza di fare la stessa cosa anche da noi.
La
cosa interessante è che proprio in quel momento emersero – come dal nulla
- gruppi completamente nuovi come i Soft Machine, i primi Pink Floyd,
Arthur Brown, Incredibile String Band, Fairport Convention, che, pur producendo
musica molto diversa, facevano tutti qualcosa di nuovo. Ma sembrava tutto
contemporaneo, prodotto del suo tempo, non “progressivo”. Secondo me il
punto di cambiamento è stato quando sono arrivati i musicisti che avevano
una formazione più accurata e che cominciavano a introdurre elementi della
musica classica. Sono entrati con forza, volevano dimostrare qualcosa,
ma hanno spostato l’attenzione da ciò che era contemporaneo a quello che
era ancorato al passato. Questi gruppi che guardavano indietro vennero
chiamati “progressive”, il termine è associato a loro in questa fase.
E’ un termine complesso, credo che abbia bisogno di un po’ di consenso
prima di poterne discutere, di poter chiarire di che cosa si tratta.
Intorno
al1966 c’era questa sensazione generalizzata di ottimismo. Si aveva l’impressione
che le generazioni dei giovani riuscissero a creare la propria musica,
organizzare i propri concerti, allontanandosi dal dominio delle case discografiche.
Purtroppo quando giunse il 1976 iniziò anche un periodo di pessimismo
e cinismo che ancora non siamo riusciti a superare. E dopo la breve parentesi
del punk il controllo è tornato totalmente nelle mani delle case discografiche.
E tutte quelle sperimentazioni piene di speranza erano state relegate
sullo sfondo, mentre negli anni Sessanta riuscivano a campeggiare in primo
piano.
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