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7.
Le espressioni musicali della controcultura Nel
progressive rock la dimensione visiva
è parte integrante dei significati che i gruppi intendono trasmettere. Le copertine
dei dischi e i manifesti che annunciano i concerti venivano spesso affidati ad
artisti grafici che appartenevano all’underground: Roger Dean, che disegnò le
copertine degli Yes; Paul Whitehead che realizzò copertine per i Genesis e i Van
der Graaf Generator; Hapshash and the Coloured Coat, formato da Michael English
e Nigel Waymouth, che produceva manifesti pubblicitari per l'UFO Club; lo Studio
Hipgnosis fondato dai fotografi Storm Thorgerson e Aubrey Powell, con cui collaborò
anche Peter Christopherson, che lavoravano per i Pink Floyd, i Genesis e molti
altri. L’ascoltatore dei dischi focalizzava i significati muovendosi in tre dimensioni:
la musica, i testi poetici e l’arte grafica. La multimedialità intrinseca diventava
palmare nelle esibizioni concertistiche. Le esibizioni dei Pink Floyd e dei Soft
Machine all’UFO Club erano caratterizzate dalla stretta collaborazione con Mark
Boyle, che è considerato il capostipite dei light shows in Gran Bretagna. Con Boyle,
nel 1967, i Soft Machine intrapresero una tournée in Francia che comprendeva diversi
progetti multimediali tra i quali una produzione del dramma Le
désir attrapé par la queque di Pablo Picasso sotto la direzione di
Jean-Jacques Lebel. Nello stesso anno l’artista collaborò al programma televisivo
Hoepla (Hilversum) con una ripresa
di We Know What You Mean dei Soft Machine. (11)
Sempre nel 1967 il gruppo si esibisce
al festival di Edimburgo in uno spettacolo dal titolo Lullaby for Catatonics ancora con le luci
di Boyle e la partecipazione della ballerina argentina Graziella Martinez, che
applicava i principi dell’estetica dadaista alla danza. Boyle tentò di creare
una sorta di “sincronizzazione” tra musica e immagine, spiegando che:
“la
musica dei Soft Machine, come le immagini proiettate, forma un flusso
con interruzioni ed esplosioni inattese, come nuvole che scorrono rapidamente
suggerendo continuamente nuovi significati e relazioni; sia la musica
che il light show sono così
tenacemente complessi e laminari che i suoni e le immagini si sostengono sempre
a vicenda, si scontrano o
si rispondono come in eco” (Boyle in Locher, 1978).
 
Figura
4: Hapshash and the Coloured Coat,
Pink Floyd. CIA vs UFO (1967), manifesto per
un concerto dei Pink Floyd all'UFO Club del
28 luglio 1967.
Figura
5: Hapshash and the Coloured Coat,
The Soft Machine Turns On, manifesto,
realizzato per un concerto dei Soft Machine
del 1967.
La tendenza all’opera multimediale è strettamente correlata a una delle
problematiche emergenti negli anni Sessanta: il superamento dei confini tra i
generi artistici. Il paradigma della convergenza delle arti è l’happening; la
presenza di Yoko Ono in diverse manifestazioni dell’underground (tra cui il party
14 Hours Technicolor Dream, organizzato all’Alexandra Palace nel 1967),
il Destruction in Art Symposium
tenutosi nel 1966 e l’attività della comune Exploding Galaxy sono esemplari per
il grado di esposizione della controcultura londinese a questa forma artistica.
Nell’happening si uniscono diversi elementi che possono avere avuto ripercussioni
sul modo di intendere la composizione e l’esecuzione sia nel progressive rock che nei gruppi di improvvisazione. L’happening ha struttura aperta, è un evento unico e irripetibile,
trascina il pubblico nell’azione collettiva, dà origine a un’esperienza di vita
ricca di significati, permette di esprimere in modo immediato i propri istinti
e sentimenti, si sottrae alle forme usurate della comunicazione artistica e ai
meccanismi di mercato (Maffi, 1972: 352-353). In uno scritto programmatico del
1968, On the Necessity of Violation, Jean-Jacques
Lebel, esponente di spicco di questa corrente in Europa, ne sottolineò l’aspetto
mitico:
“L’happening traspone l’esperienza concreta direttamente
in un contesto mitico. Non si accontenta di interpretare semplicemente
la vita, ma prende parte al suo sviluppo situandosi all’interno della
realtà. Questo implica un profondo legame tra l’ambito del concreto e
quello dell’allucinazione, tra la realtà e l’immaginario” (Lebel in Sandford,
1995: 271).
La collaborazione con Lebel deve avere lasciato tracce
su Kevin Ayers che, sempre nel 1968, affermò: “sta nascendo o emergendo un nuovo genere di interprete
che proporrà un tipo di interpretazione radicalmente diverso. Anziché provare
piacere di fronte a uno spettacolo, le persone proveranno piacere con se stessi
sotto la direzione del Nuovo Interprete. Il piacere non sarà più una fantasia
rappresentata ma prenderà la forma di una scoperta ed esperienza di sé, che –
speriamo – determinerà la distruzione delle inibizioni che impediscono l’esperienza
totale” (Ayers, 1968).
La collaborazione tra i Soft Machine e Lebel ebbe
luogo in uno dei Festival de la Libre Expression che l’artista francese
organizzò a partire dal 1964 presso l’American Student's & Artist's
Center di Parigi. Nella terza edizione del festival (1967) egli allestì
Passion selon Sade di Sylvano Bussotti e
l’anno successivo partecipò al Festival Internazionale del Teatro Universitario
a Parma, coordinando la performance Golden Duck Soup la cui parte sonora era
affidata a Musica Elettronica Viva (Rzewski, 1999).
 
Figura
6: Copertina della rivista International
Times (1967).
Filmato
1:Estratto dell'happening ideato da
Yoko Ono per la manifestazione 14 Hour
Technicolor Dream, Alexandra Palace,
29 aprile 1967. (fonte: Pink Floyd.
London 1966/1967 DVD Highnote Ltd.)
La generale
ridefinizione delle arti performative, alla quale contribuirono i musicisti
del progressive rock, è
legata a quell’ampio e variegato campo che gli storici e i sociologi chiamano
controcultura. Per un certo periodo, la nuova
musica prodotta nei locali di Londra veniva definita underground,
termine con cui la si ancorava a una rete di esperienze artistiche, sociali
ed esistenziali accomunate dalla contestazione dell’ordine vigente. Nelle
ricostruzioni storiche, la controcultura londinese sembra attestarsi tra
due eventi che ebbero considerevole risonanza: l’International Poetry
Reading alla Royal Albert Hall l’11 giugno del 1965, a cui parteciparono
alcuni dei maggiori rappresentanti della beat generation: William Burroughs,
Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti e Allen Ginsberg
(12),
e il convegno The Dialectics of Liberation, che ebbe luogo al Roundhouse
tra il 15 e il 30 luglio 1967 con la partecipazione di Herbert Marcuse,
Ronald D. Laing, Lucien Goldman, Paul Sweezy e molti altri rappresentanti
del movimento di contestazione (Cooper, 1969).
Tra i moventi originari della controcultura può essere individuata la
minaccia di una guerra nucleare tra la crisi di Corea e quella della Baia
dei Porci. Nel corso degli anni Sessanta, il movimento antimilitarista
si estende a un rifiuto del sistema di valori in tutte le sue sfere: famiglia,
scuola, chiesa, amministrazione, mezzi di informazione, partiti politici,
polizia ed esercito. Un nuovo tipo di libertà viene opposto a quello promosso
dalle democrazie occidentali, di cui si scoprono le contraddizioni e gli
interessi occulti. Questa libertà si manifesta nella condivisione di luoghi
abitativi e di piccole imprese a gestione collettiva (comuni), nel vagabondare
senza una meta definita, nell’uso di droghe leggere con l’obiettivo di
estendere gli ambiti della coscienza, nell’apprendimento di pratiche meditative
provenienti dall’Oriente, nelle attività creative (poesia, musica, artigianato),
nell’abbigliamento personalizzato e nella gestione non convenzionale della
propria sessualità. Questa spinta a una trasformazione radicale dell’esistente
conduce a una critica alle istituzioni della sinistra tradizionale (i
sindacati, il Partito Democratico in USA, i partiti socialisti e comunisti
in Europa) e a nuove forme di manifestazione pubblica del dissenso. L’idea
di una rivoluzione globale, che anima queste iniziative, respinge la tesi
marxiana di un’evoluzione oggettiva della società e pone l’accento sull’impegno
soggettivo e sull’emancipazione dell’individuo. Dall’insieme di questi
fattori si produce una sintesi tra arte e politica, che ha precedenti
nel movimento surrealista ma si declina ora in modo inedito. Nel suo celebre
e influente Saggio sulla liberazione
Marcuse affermava “La nuova sensibilità […] è divenuta una
forza politica – una praxis che emerge dalla lotta contro la violenza
e lo sfruttamento dove questa lotta sia condotta per ottenere modi e forme
di vita essenzialmente nuovi: la negazione dell’intero establishment,
della sua morale e della sua cultura; l’affermazione del diritto di edificare
una società in cui l’abolizione della povertà e della fatica si concluda
in un universo dove il sensuale, il giocoso, il calmo, il bello diventano
forme di esistenza, e pertanto la forma stessa della società” (Marcuse, 1969:
38).
In coerenza
all’arte psichedelica (Grunenberg, 2005) e a ciò che John Covach designa
qui con il termine ”estetica hippy”, la presa di posizione nei confronti
della realtà sociale ha luogo mediante la costruzione di una realtà sensoriale
di altro tipo, i cui principi dipendono dalla “nuova sensibilità”. Nella
prospettiva di una congiunzione tra arte e politica, il senso dell’impegno
dell’artista muta considerevolmente rispetto al passato anche recente.
La contraddizione degli artisti che esprimono pubblicamente solidarietà
con le vittime del lavoro, i prigionieri politici o i popoli oppressi,
continuando a produrre opere d’arte secondo i principi della tradizione,
non appare più sopportabile. Le esperienze dei gruppi Fluxus, degli happening
e del Living Theatre hanno marcato profondamente la controcultura; tuttavia
il progressive rock mostra come questa spinta
alla rottura con il sistema arte della cultura borghese si sia potuta
combinare con lo sguardo ironico della Pop Art, con motivi tratti da romanzi
e film di fantascienza, con i nuovi fumetti e persino i nuovi stili della
pubblicità (Frith, Horne, 1988). La commistione stilistica e la disponibilità
verso sintesi sempre diverse può debordare in prodotti ibridi e disorganici,
nei quali il rifiuto dei comportamenti convenzionali e l’integrazione
nelle strutture della società post-industriale convivono senza apparenti
dissonanze. Questa deriva era già stata messa in luce da Konrad Boehmer,
un compositore attivo nelle manifestazioni della sinistra extraparlamentare
ma sempre vigilante rispetto alle tendenze regressive del movimento. Prendendo
in esame l’adozione di materiali e tecniche della musica di avanguardia
in certi pezzi dei Beatles e dei Mothers of Invention, Boehmer osservava:
“E’ opportuno sottoporre a un giudizio critico l’apparente conciliazione
di serialità e pop, soprattutto in ambiti musicali nei quali essa venne
praticata quasi programmaticamente. Così come la musica avanzata corre
il pericolo di proiettare sul piano estetico la fuga dalle sue tradizioni
e l’incursione nel mondo sociale, altrettanto la musica pop si espone
al pericolo di subordinare le innovazioni musicali ai criteri del mercato,
al cui orientamento dominante esse si oppongono, di ripetere cioè ogni
volta il processo di reificazione che li ha prodotti” (Boehmer, 1970:
152).
La modalità privilegiata
con cui i compositori hanno espresso una distanza critica nei confronti
degli apparati di dominio e delle forme di oppressione è la messa in musica
di testi di denuncia: questo vale per un insieme differenziato che comprende
Arnold Schoenberg, Kurt Weill, Hanns Eisler, Leonard Bernstein, Luigi
Dallapiccola e Hans-Werner Henze. A maggior ragione vale per le canzoni
di protesta che davano voce e suono alle istanze del movimento di contestazione
per così dire in tempo reale. Il progressive
rock, che a molti osservatori contemporanei appariva come apolitico,
presenta invece una situazione trasversale, che merita di essere indagata
anche perché è emblematica per l’underground nel suo complesso. Nei cantautori
– in Joan Baez, Bob Dylan, David Crosby e molti altri - il testo è l’elemento
primario attorno a cui si focalizza il significato; invece i testi dei
gruppi rock rappresentano una dimensione particolare di un significato
più complesso a cui partecipano la musica, le allusioni letterarie o mitiche
e gli elementi visivi. Nella loro analisi di 21st Century Schizoid Man dei King Crimson
(in questo sito), Agostini e Marconi hanno messo in evidenza come un insieme
coeso costituito dalle linee melodiche e dai modi di esecuzione del cantante,
dai decorsi armonici, dall’articolazione formale e dagli accorgimenti
strumentali e tecnici conferisca al brano una declinazione espressiva
e una forza comunicativa che il testo da solo – malgrado i riferimenti
espliciti alle pratiche di tortura dei lager nazisti e all’annientamento
dei villaggi vietnamiti – non potrebbe avere.
Living in the Heart of the Beast, una delle più complesse composizioni pubblicate su disco dagli Henry
Cow, mette invece l’ascoltatore a confronto con problematiche vicine a
quelle dell’avanguardia. La tecnica di montaggio di sezioni caratterizzate
da strumentazione, metro e tempo differenti – uno dei tratti salienti
del progressive rock – viene
qui messa al servizio di un significato globale di cui le parole sembrano
essere solamente un sintomo. Le strofe a metrica irregolare, che vengono
interpretate da Dagmar Krause generalmente in stile declamato, si mettono
in molteplici relazioni con la musica fungendo di volta in volta da anticipazione,
culmine o conseguenza di un processo sonoro. Questa impostazione determina
un continuo mutamento di ambiente che ha precedenti nelle opere di Schoenberg
e Weill; la sezione finale (“Now is the time to begin to go forward…”),
in tempo di marcia, fa emergere con chiarezza lo spirito di agitazione
politica.
In Little Red Record dei
Matching Mole il messaggio politico appare chiaramente nel titolo e nella
copertina del disco sulla quale sono ritratti i quattro membri del gruppo
con uniformi da guerriglieri (uno di loro agita il libretto di Mao, un
altro sventola una bandiera rossa, un terzo imbraccia un mitra). Il nome
del gruppo, che fu fondato da Robert Wyatt nel 1971, ha due riferimenti:
in primo luogo, è la traslitterazione del termine francese “machine molle”,
che a sua volta traduce il nome dei Soft Machine marcando il legame di
continuità tra i due gruppi; in secondo luogo, richiama Red
Mole, il titolo del giornale dei trotzkijsti inglesi che peraltro
nello stesso anno aveva pubblicato una conversazione tra John Lennon,
Yoko Ono, Robin Blackburn and Tariq Ali sui rapporti tra musica e politica.
Il sesto brano del disco, Gloria Gloom,
inizia con un’atmosfera tetra e minacciosa, prodotta dalle colate di suoni
emesse dal sintetizzatore di Brian Eno (artista ospite), fortemente riverberate
e mescolate a suoni di sirene e di macchinari militari; a questa lunga
introduzione segue, con una sorta di dissolvenza incrociata, la sezione
principale eseguita dal quartetto; le battute introduttive della canzone
e la sua prima strofa sono sovrapposte a voci di donne e uomini che parlano
in diverse lingue (artificio che evoca la dimensione mondiale del movimento
rivoluzionario); le parole di Wyatt espongono una delle questioni fondamentali
degli artisti marxisti intorno al 1968:
“Like
so many of you I’ve
got my doubts about how much to contribute To
the already rich among us… How
long can I pretend that music’s more relevant Than
fighting for a socialist world?”
Un
esempio diverso di presa di posizione nei confronti della realtà sociale
è Knots, contenuto nell’album
Octopus dei Gentle Giant. Il brano prende
il titolo e lo stile testuale da una raccolta di poesie che Ronald D.
Laing aveva pubblicato nel 1970. La tesi di fondo attorno a cui ruotano
queste meditazioni in versi dello psicanalista inglese è che le ansie
e i disagi hanno la loro radice in dinamiche interpersonali. I Gentle
Giant rendono il gioco di rispecchiamenti tra l’io e l’altro mediante
una tecnica di permutazione dei vocaboli; essa trova un correlato nella
tecnica dell’hoquetus con la quale quattro cantanti senza accompagnamento
strumentale aprono il pezzo. Come osserva Allan Moore in questo sito,
il pezzo è costruito secondo una simmetria imperfetta. La prima strofa,
che si articola in una sezione in hoquetus e una sezione in stile madrigalistico
si ripete quasi identica dopo un breve intervento dello xilofono; a ciò
segue la seconda strofa nella quale i cantanti, raggruppati a due a due,
ripetono dei pattern melodici sovrapposti alla precedente parte dello
xilofono. A ciò segue il primo climax in cui i cantanti propongono diverse
permutazioni del verso centrale: “He tries to make her afraid by not beeing
afraid” sul riff delle tastiere. Dopo un a solo più prolungato dello xilofono,
viene presentata una versione contratta del materiale precedente: parte
madrigalistica della prima strofa e versione abbreviata della seconda;
in conclusione viene riproposta la sezione del climax. La forma musicale
sembra dunque essere modellata in conformità al significato del testo
in un modo simile, anche se gli stili richiamano epoche precedenti, al
Lied romantico. Il comportamento che respinge in un circolo all’infinito
sull’altro/a i sensi di dubbio, colpa e paura viene interpretato nel segno
delle patologie della vita quotidiana.
Un caso particolare delle
relazioni tra musica e politica è rappresentato da Careful with That Axe, Eugene dei Pink Floyd.
Al termine di un’approfondita analisi della versione discografica, John
S. Cotner afferma che la conclusione del pezzo suggerisce un’apertura su
un mondo altro, anticipa “il non-conosciuto, un ampio spazio vuoto, che
forse simboleggia un vuoto psicologico, la crisi della personalità, del
proprio io” (Cotner, 2002: 151) Careful with That Axe, Eugene, nato dalle
esplorazioni psichedeliche che caratterizzavano le lunghe sessioni all’epoca
dell’UFO Club, rimase per anni un pezzo stabile nelle esibizioni dei Pink
Floyd. La sua fama è dovuta in parte all’impiego che Michelangelo Antonioni
ne fece nelle scena finale di Zabriskie Point, un film del 1970 che riflette
in pieno uno dei temi nodali della controcultura: la stretta relazione tra
dimensione privata e politica. La scena finale è una sorta di videoclip
ante litteram, una sequenza
di immagini senza attori,
dialoghi o monologhi. Le immagini sono quelle di un sogno o – come ritiene
Alberto Moravia (Moravia, 1971) – di una visione simbolico-profetica: la
villa in cui l’uomo di affari per cui uno dei due protagonisti, Daria, lavora
sta conducendo una trattativa va in frantumi a causa di un’esplosione. La
scena si articola in due sequenze: la prima, in cui dominano i colori caldi
(giallo, arancione e rosso), è stata girata con 17 macchine da presa disposte
attorno all’edificio e sonorizzata con i soli rumori dell’esplosione; nella
seconda, contrassegnata dai colori freddi (verde, azzurro), si vedono quelle
che Antonioni chiamava “esplosioni astratte” di oggetti d’uso e di consumo,
riprese con macchine ad alta velocità con una serie di accorgimenti per
rendere irreale l’illuminazione. A questa seconda sequenza viene sovrapposto
un estratto di Careful with That Axe,
Eugene, che giunge fino al momento in cui la dinamica si sposta
improvvisamente dal piano al fortissimo e Roger Waters emette un urlo terrificante,
comprendendo l’inizio dell’a solo di David Gilmour. L’abbinamento di questo
estratto con le immagini e con il significato che esse assumono nel quadro
della narrazione filmica rimanda agli arbitrari mutamenti di destinazione
di musica preesistente piuttosto consueti tra i registi – si pensi all’uso
che Stanley Kubrick fece proprio in quegli anni di Atmosphères di György Ligeti in 2001
– Odissea nello spazio.
Filmato 2:
Estratto da Zabriskie Point di Michelangelo
Antonioni (1970).
Tuttavia la prospettiva
muta sensibilmente se si considerano alcune interpretazioni di Careful with That Axe, Eugene che i Pink
Floyd proposero negli anni seguenti e che ci sono pervenute su supporto
audiovisivo. Nell’aprile del 1970 il gruppo registrò presso l’emittente
televisiva KQED di San Francisco una serie di brani che probabilmente corrispondevano
al programma standard di un concerto di quel periodo: la cesura principale
di Careful with That Axe, Eugene è evidenziata dalla regia mediante
una dissolvenza incrociata in cui le inquadrature dei musicisti vengono
sostituite da una fumata di colore violetto che a tratti ricorda l’effetto
di un’esplosione nucleare. Nel concerto che si tenne il 22 maggio 1972 allo
stadio olimpico di Amsterdam, lo stesso passaggio viene sincronizzato con
l’innesco di una serie di serbatoi, disposti sullo sfondo del palcoscenico,
che proiettano benzina infiammata dal basso verso l’alto; uno scenario pressoché
identico serve da artificio drammaturgico nell’esecuzione che si tenne all’Earl’s
Court il 18 maggio1973. (13)
Il sistema simbolico messo
in atto in questi concerti può essere spiegato facendo riferimento all’episodio
Careful with That Axe, Eugene che compare
nel film Live At Pompeii realizzato
nel 1971 dal regista Adrian Maben: alle inquadrature del gruppo che suona
si alternano immagini della solfara di Pozzuoli finché, al punto di svolta,
vengono interpolate eruzioni di vulcani e colate di lava (ovviamente provenienti
da qualche altro sito). Vi è dunque una congruenza tra il film e le messe
in scena dei concerti che riguarda i colori, i simboli e la drammaturgia.
Se dunque il significato originale del pezzo risiedeva nell’introspezione
e nel sentimento di trepidante attesa, ora grazie alla mediazione di Antonioni
la dimensione esoterica si è capovolta in essoterica: il pezzo è diventato
allegoria di un’energia a lungo compressa che alla fine esplode devastando
tutto ciò che esiste intorno. Forse anche contro le intenzione degli autori
è stato letto come allegoria dell’azione rivoluzionaria.
8. Il “gruppo” sul palco La ricostruzione di una performance dei Beatles del 1964 negli studi
televisivi della CBS, elaborata da Laurel Sercombe (2006), mette in luce come
il comportamento esuberante del giovane pubblico del rock conferisse novità agli
appuntamenti tra artisti e pubblico. In questo sito Laura Leante, attraverso l’analisi
della gestualità di Peter Gabriel durante le diverse esecuzioni di The Musical Box, individua come
gli studiati espedienti utilizzati dal cantante dei Genesis facessero
del concerto un momento performativo complesso, in cui la comunicazione con gli
ascoltatori era mediata da diversi livelli espressivi. Gli scarni materiali filmati
del periodo danno un’idea abbastanza differenziata delle relazioni tra musicisti
e pubblico durante i concerti, anche se, anche in questo caso, è possibile trovare
un substrato coeso. Un
comportamento diffuso, derivato dalle esperienze dei primi anni Sessanta, era
la messa in scena del gruppo in quanto unità progettuale. I Beatles
come altre band coeve, non avevano un front-man.
Il batterista sullo sfondo, con il nome della band ben visibile sulla cassa, teneva
discretamente il filo del discorso, come un burattinaio che articoli mani e piedi
per il bene comune. Gli altri, simili tra loro, in piedi davanti ai microfoni,
con i loro capelli a caschetto e le loro chitarre creavano l’immagine solida dell’uguaglianza
e del progetto comune. Negli ultimi anni le diverse sensibilità artistiche dei
componenti venivano addirittura enfatizzate e il rifiuto dei Beatles di esibirsi
dal vivo, a partire dal 1966, istillò nelle schiere di ammiratori un rimpianto
insanabile. Nonostante questo la copertina di Abbey
Road in cui i quattro musicisti con vestiti di differente colore, ma
con passo di uguale misura, attraversano le strisce pedonali, li mostrò ancora
perfettamente “gruppo” alla vigilia dello scioglimento. La complessità musicale
del progressive rock si traduceva
sulla scena nella stupefacente strumentazione e nel virtuosismo dei musicisti,
ma l’immagine coesa dell’insieme del produceva una forza di impatto che superava
di gran lunga il valore dei singoli, in quegli anni di grande valorizzazione del
“collettivo”. I Rolling
Stones (paradigmaticamente in contrasto con il discorso appena fatto) hanno avuto
sempre un cantante solista di grande personalità e dunque un diverso impatto scenico.
All’inizio della loro carriera erano abbastanza convenzionali rispetto ai modelli
del rock and roll americano che si basavano sulla centralità del front-man e dei quali Mick Jagger faceva
largo uso attraverso l’imitazione di gesti e posture. Loro però hanno finito per
rappresentare l’esempio di una espressività aggressiva e cupa che era poco praticata
per esempio dai Beatles, ma che farà scuola anch’essa tra i gruppi successivi,
manifestandosi in sintonia con la qualità dei messaggi e delle atmosfere veicolati.
Tali messaggi avevano prevalentemente una connotazione grave: le tematiche prevalenti
erano esistenziali e apocalittiche, le tinte scure. A proposito del suo film Interstellar Overdrive, dedicato ai Pink
Floyd, Peter Whitehead dichiara: “Non volevo fare un film pop.
Ero più interessato all’oscurità, all’ombra”. La scelta era caduta allora sul
panorama inglese, invece che su quello americano (decisamente più solare anche
nelle ironiche produzioni di Frank Zappa). (14)
Tuttavia, a
differenza dei primi Beatles e forse anche dei Rolling Stones, i musicisti rock
di pochi anni successivi sembrano voler comunicare, dal palco, soprattutto la
profondità dell’impegno profuso nella ricerca musicale. John Covach definisce
come ambizione musicale “la tendenza a impregnare il rock con un senso di serietà
di intenti” e ne fa uno dei cardini della “estetica hippy”. Una certa grandiosità
era nel sinfonismo di ELP, ma anche, in altro modo, nelle macchinazioni poliritmiche
dei Soft Machine. Il progetto artistico poteva essere rappresentato in modo più
o meno multimediale e spettacolarizzato, ma era comunque l’obbiettivo centrale
del discorso. All’atteggiamento serio si affiancava, talvolta, un ostentato disinteresse
nei confronti del pubblico. I primi Pink Floyd suonavano a testa prevalentemente
bassa, senza guardare chi ascoltava e non mettendosi in relazione visibile tra
loro. La disposizione degli strumenti non era sempre convenzionale. In un video
girato in un club Barrett (voce e chitarra, dunque parti da prima fila) è posizionato
dietro la batteria. (15)
Particolarmente
presi dal rapporto intensissimo richiesto dalle loro composizioni i musicisti
dei Soft Machine erano chiusi in un cerchio esclusivo. In un filmato della televisione
francese del 1970, con l’organico di Third,
Ratledge è laterale a destra dello spazio scenico con la tastiera perpendicolare
alla platea. Una postazione visibile in molti altri documenti e che gli consentiva
di guardare perfettamente i compagni: a loro e non al pubblico era indirizzata
la sua pacata e controllatissima attenzione. Hopper è dritto sul palco in una posizione
speculare a quella di Ratledge. I due possono guardarsi in faccia dimostrando,
anche visivamente, l’intimo legame tra le loro parti. In mezzo c’è Wyatt, con
la batteria e il microfono mobile, che lui manovra con maestria per realizzare
le sfumature sui riverberi multipli della sua voce. E’ rivolto verso il pubblico
(anche se, come tutti i batteristi è nascosto dallo strumento), ma, almeno in
questo caso, ha il volto completamente coperto dai capelli, anche quando impugna
il microfono per cantare e non sorride nemmeno durante gli applausi. Elton Dean,
con il sassofono, è l’unico veramente in una posizione avanzata e frontale, anche
se all’estrema sinistra del palco. Preso dai suoi assoli, non alza mai lo sguardo
dallo strumento. (16)
Nei filmati degli anni precedenti,
con o senza Hopper, Ratledge ha la stessa posizione e lo stesso ruolo sulla scena,
Wyatt è più giovane e meno disinvolto. In un caso c’é Kevin Ayers che ha una presenza
scenica completamente diversa. E’ in posizione avanzata, guarda il pubblico e
ha un pesante trucco glam. (17)
L’uso di trucchi e maschere, esaltato
negli stessi anni da cantanti solisti come David Bowie, era un modo di presentarsi
segnato da un intento di straniamento, coerente con un atteggiamento comunicativo
impersonale e mediato dall’arte.La minore importanza del cantato limitava ulteriormente
gli spazi del discorso diretto con il pubblico. I musicisti erano protetti dai
loro strumenti. Durante i concerti, inoltre, la coincidenza del ruolo di cantante
con quello di strumentista risolveva un problema non indifferente: le lunghe sezioni
strumentali avrebbero imposto ai cantanti lunghe pause vuote. John Anderson riempiva
questi momenti scandendo il tempo con il cimbalo, che, pur con le sue caratterizzazioni
country, fu abbastanza usato proprio con
questo scopo. Lo suonavano anche Peter Gabriel e Derek Schulman, quando non erano
impegnati con altri strumenti. Il polistrumentismo, imposto per necessità o per
vezzo dal clichè eclettico dello stile, era anche un formidabile espediente scenico.
I Gentle Giant basavano la loro spettacolarità in gran parte sull’esibizione della
grande varietà di oggetti che riuscivano a maneggiare. Il loro legame con il sound
acustico e, quindi più prossimo al folk, si accompagnava anche ad un atteggiamento
molto diverso da quello di altri gruppi. Derek Schulman disinvolto e comunicativo
creava un’atmosfera divertente e rilassata. Il virtuosismo era esibito con scioltezza
e studiata simpatia da parte di tutti i componenti. Ian Anderson
dei Jethro Tull, per citare un’altra band del rock più prossimo al folk, aveva
viceversa un atteggiamento molto aggressivo. I
rapporti tra i musicisti rock e i loro ascoltatori non furono sempre facili. Il
comune progetto superiore di rinnovamento sociale e culturale portò nei primi
tempi ad accorciare le distanze tra i musicisti e coloro che li apprezzavano.
Da parte dei musicisti il rapporto con il pubblico diventò sempre più controverso
man mano che si passò dai club ai teatri, dal ruolo di rappresentanti musicali
di una comunità paritetica a “star”, per certi versi insofferenti di questo ruolo.
Un esplicito rimpianto delle esperienze più fresche dei primi Pink Floyd è espresso
da Roger Waters nel 1999: “Sto parlando di come la magia di quei primi tempi sia
stata sopraffatta dal peso dei numeri, man mano che noi diventavamo più famosi
e suonavamo in eventi sempre più grandi questo fece diventare sempre di meno
quei magici momenti di comunicazione tra i musicisti e il pubblico, sempre di
meno quelli e sempre di più i soldi e i numeri e l’ego”. (18)
In un’intervista,
rilasciata nel 1971 alla rivista statunitense Creem
e riportata nell’archivio del sito ufficiale dei Genesis, (19)
leggiamo due
frasi significative di Peter Gabriel e Phil Collins. Gabriel: “[...] non mi piace fare spettacolo. É
un po’ come addestrare un animale, solo che l’animale sono io. [...]
Ci pensano come se fossimo una forma [d’arte] visiva, ma per noi questa è musica”;
Collins:
“[...] tutta la stampa su Peter ci dà fastidio, perché noi siamo un gruppo paritetico.
E ci butta giù quando la gente non riesce a vedere oltre il fatto superficiale
che Peter si metta strani vestiti e maschere. [...] Gli aspetti visivi scalzano
la musica. Peter indossa il suo cappello in The
Battle of Epping Forest, perchè sta imitando un mascalzone, non perché
ha fantasie sessuali”. La
polemica tra i due è ben nota tra gli affezionati e i detrattori dei Genesis che vi leggono la testimonianza più evidente del
fatto che l’idea di “gruppo” fosse mal conciliabile con la presenza di un front-man
di forte personalità. Eppure guardando con il senno di
poi i video dell’epoca sembrerebbe proprio che l’atteggiamento teatrale di Gabriel,
i suoi studiati movimenti, il suo uso drammaturgico della vocalità e la sua revisione
del ruolo del canto siano di interesse musicale e finalizzati alla buona resa
dei brani. Ma i frammenti di discorso citati svelano uno scollamento, non solo
o non tanto, tra i membri del gruppo, quanto tra il gruppo e il pubblico, che
evidentemente non capiva più cosa fosse importante per i musicisti. I messaggi
che Gabriel voleva comunicare erano fraintesi. L’immagine del “gruppo paritetico”
evidentemente non arrivava a destinazione. La
spettacolarizzazione del rock fu in ultima analisi un’esperienza controversa.
In Italia, come ha testimoniato anche Toni Pagliuca durante il convegno, l’impegno
dei gruppi nell’acquisto di costumi, scene, regie autorevoli si rivelò un onere
pesantissimo e non ripagato dal successo e dalla comprensione del pubblico.
Robert Fripp offre
una sintesi degli equivoci tra musicisti e pubblico che contribuirono, infine,
attraverso l’abbandono di vari protagonisti, a determinare il deterioramento dell’esperienza
stessa del progressive una delle
poche musiche sperimentali del XX secolo che diventò, in tempo reale, fenomeno
di massa. L’intervista, del 1979, partiva dal progetto elettronico Frippertronics:
“Avevo
numerose ragioni per lasciare i King Crimson, nel settembre 1974. Dal punto di
vista professionale molte riguardavano la mia sensazione di frustrazione per non
essere in grado di stabilire un buon contatto con gli ascoltatori. Questa mia
impressione era causata da tre motivi. Il primo era la proporzione degli eventi,
perché quando ci sono tremila persone la situazione è semplicemente troppo vasta
per poter stabilire un contatto reale, [...]. La seconda ragione è che è difficile
essere i membri di un pubblico in modo coinvolgente, qualunque sia il modo con
cui siamo coinvolti. In che modo possiamo partecipare? Paghiamo il biglietto,
speriamo di essere intrattenuti. Non prevediamo di andare oltre accettando la
responsabilità delle nostre orecchie e di porre attenzione all’ascolto. E la terza
ragione è quella relazione vampiresca tra il pubblico e il musicista in base alla
quale noi assecondiamo le peggiori pretese e vanità dei musicisti in cambio di
godere indirettamente noi stessi (imbrogliando) di quello strano stile di vita
[...] Quelli che sono interessati ai concerti di Frippertronics hanno bisogno di portarsi
solo le orecchie. Non hanno nessun’altra responsabilità che quella delle loro
orecchie”. (20)
Il chitarrista e leader dei King Crimson del resto anche nei suoi atteggiamenti
concentrati sul palco sembrava dimostrare di percepire l’esibizione soprattutto
come un’offerta musicale, come avviene nei concerti di musica classica. Per
concludere, l’eterogeneità dei comportamenti, influenzati dalle differenti personalità
dei musicisti, è leggibile, al pari dell’eclettismo musicale, come un’ostentazione
della libertà di essere “se stessi”. Ogni musicista indossava la maschera della
propria identità personale o del personaggio che aveva scelto di rappresentare,
presumendo di evitare i clichè di genere diffusi in esperienze precedenti. Era
questa una dimostrazione ricercata di sincerità o, per riprendere di nuovo il
discorso di Simon Frith, di “autenticità”, sulla quale si chiedeva complicità
da parte del pubblico. Per questo la serietà con cui i gruppi si presentavano,
talvolta teatralmente aggressiva, tragica e cupa, talvolta virtuosistica o asciuttamente
professionale, pretendeva attenzione come nelle musiche d’arte, ma per altri versi
anche comprensione e partecipazione come nei rituali collettivi. In tutti i casi,
se guardiamo a questa produzione applicando criteri funzionali, siamo ben lontani
dalla possibilità di qualificarla come musica di “intrattenimento”, usando la
categoria che era stata applicata in maniera privilegiata alla produzione di canzoni
e ballabili della prima parte del Novecento. Epilogo Se,
nel lavoro didattico presso la Facoltà di Musicologia di Cremona, non ci fossimo
accorti che tanti nostri studenti conoscono, apprezzano e suonano la musica dei
gruppi rock che erano all’ordine del giorno nella nostra prima adolescenza, forse
non avremmo mai avuto la spinta per avviare il convegno del 2005 e la pubblicazione
di questi atti. Il problema che volevamo soprattutto focalizzare erano le procedure
di composizione e sperimentazione avviate in quegli anni. Uno studente chitarrista
recentemente ci ha detto che nel suo ambiente si definisce progressive
qualunque momento di una composizione in cui si accavallano stili differenti (per
esempio “una melodia derivata da un raga, su un riff rock e un tempo 7/8”). La
ricerca eclettica e la sperimentazione spregiudicata nella commistione di stili
è diventata dunque per alcuni musicisti un procedimento compositivo comune e condiviso.
Da questo punto di vista, quel momento del rock deve aver lasciato traccia in
tante musiche attuali, che della commistione di linguaggi per esempio di varie
parti del mondo, fanno la loro regola. Ma il discorso potrebbe anche essere rovesciato
e potremmo vedere nella sensibilità di quei musicisti solo il primo germe di un’epoca
di rimescolamento globale dei suoni. Oggi, ovviamente, c’è una sorta di abitudine
all’eterogeneità e, anche una giusta difesa del diritto all’esistenza di tutte
le diversità. Allora forse qualcuno poteva coltivare l’utopia che dal gioco delle
carte potesse nascere una musica unitaria e bella per tutti. A guardar bene era
un’utopia parallela a quella per una società giusta e buona con tutti. In ambedue
i casi la storia è andata da un’altra parte. Una
considerazione va ancora fatta a proposito del ponte tra passato e presente. Allan
Moore apre il suo intervento riferendo di un dibattito in Gran Bretagna sul revival
del progressive rock (un revival
documentabile anche in altre parti del mondo per la presenza di molti gruppi che
fanno cover o addirittura copie filologicamente esatte dei brani di allora). Questo
revival non sarebbe stato possibile senza alcune sostanziali novità tecnologiche:
dapprima il Compact Disc che ha favorito la ristampa di musiche che si stavano
rare-facendo e museificando, successivamente Internet con la sua diffusione a
tutto tondo di materiali un tempo assolutamente inavvicinabili, infine il relativamente
basso costo di nuove strumentazioni che rendono accessibili a molti quegli effetti
e quegli espedienti un tempo realizzabili solo in ricchi studi di registrazione.
Ancora una volta sono le tecnologie a guidare la danza? < 1
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