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Borio - Facci

Composizione e sperimentazione nel rock britannico 1967-1976

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Figura 1: Copertina di A Saucerful of Secrets
dei Pink Floyd (1968), realizzata da Storm
Thorgerson e Aubrey Powell.

Figura 2: Copertina di Little Red Record dei
Matching Mole (1972),realizzata mediante
un montaggio dell'effigie dei quattro musicisti
su una cartolina propagandistica di un gruppo
maoista.


Figura 3: Particolare della copertina di Yessongs degli Yes (1973), realizzata da Roger Dean.

 

3. Unità nell’eclettismo?

La varietà stilistica riscontrabile nel progressive rock ha indotto critici e studiosi a operare articolate distinzioni, fino talvolta ad arrivare a negare loro lo statuto di genere musicale unitario. Nel saggio pubblicato in questo sito John Covach conia l’espressione “estetica hippy”; egli tenta di ricondurre il discorso verso una prospettiva unitaria, spostando l’asse di osservazione dai caratteri più specifici dello stile musicale alle procedure di creazione, esecuzione e fruizione delle musiche. In effetti, se è difficile ricondurre a unità queste produzioni musicali, si fa ugualmente fatica a sgretolarle in un collage di esperienze autonome. In primo luogo andrebbe definito perché e in che modo esse siano riconducibile al grande contenitore del rock. La ricostruzione storiografica delle origini di questo termine, che ha via via acquistato spessore culturale, oltre che musicale, non è esente da dubbi e problematiche. Recita come segue la definizione di rock, proposta da Richard Middleton per il New Grove of the Music and the Musicians:

“Termine usato per definire una forma particolare di musica pop. Come contrazione di ‘rock and roll’, è apparso per la prima volta negli anni Sessanta per descrivere alcuni nuovi stili pop sviluppatisi, a partire circa dal 1965, nell’America del Nord e in Gran Bretagna. Questi stili erano prevalentemente associati ad ascoltatori e musicisti giovani e bianchi: per esempio i Beatles e i Rolling Stones in Gran Bretagna e gruppi operanti in California come i Jefferson Airplane e i Grateful Dead” (Middleton, 2000).

In base a questa definizione, che rimanda a sua volta ad altri due termini, ‘rock and roll’ e ‘pop’, il termine ‘rock’ è nato insieme alle esperienze musicali di cui stiamo qui parlando e che datano, in Gran Bretagna, a partire dal 1966. Esse, dunque, assieme a quelle di alcuni musicisti californiani, sarebbero state fondanti di qualcosa che poi avrebbe segnato la storia musicale del XX secolo. Middleton però non cita direttamente gruppi come gli Yes o i King Crimson. Si riferisce, per quanto riguarda il panorama inglese, a Beatles e Rolling Stones. Queste band (o come si diceva allora in Italia “complessi”) nella prima parte degli anni Sessanta non si definivano rock (Fabbri in questo sito), bensì, come i Beatles, beat (termine usato nell’area di Liverpool con molti significati, incluso un riferimento alla corrente culturale della beat generation (1)), oppure semplicemente rhythm and blues (Rolling Stones, Animals, Who), blues (Yardbird) e talvolta pop (termine in realtà più americano, allora connotato dal movimento della Pop Art).
Middleton ci ricorda che il termine ‘rock’ è l’abbreviazione di ‘rock and roll’ e in questa accezione circolava anche prima del 1965. Il rock and roll, che negli anni Cinquanta era nato negli Stati Uniti come una delle tante varianti del prolifico filone afroamericano, era arrivato in Europa grazie soprattutto alla mediazione di Elvis Presley e di star nere come Little Richard e Chuck Berry; aveva un marcato carattere di musica da ballo particolarmente energica poteva essere collocata nella corrente del jive e del boogie woogie, da cui ereditava  alcune caratteristiche musicali (come il giro di basso) e coreutiche, pur sotto il segno di un aumento di velocità di esecuzione e dell’enfatizzazione degli aspetti erotici. In realtà tra il rock and roll americano a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta e il rock britannico di dieci anni dopo ci sono grandissime differenze sui piani musicale e funzionale, dovute in gran parte al passaggio da musica da ballo a musica d’ascolto o d’arte. La metamorfosi, pur veloce, non fu istantanea. Proprio la vivace realtà inglese dei club e degli innumerevoli gruppi di skiffle, (2) blues, rhythm and blues, rock and roll, beat, (3) etc. creò un ponte significativo tra i due mondi. Alcune di queste band, reinterpretando, mescolando e  semplificando, i generi d’oltreoceano crearono uno stile autonomo e prettamente giovanile che, pur provenendo dal blues e dal rock and roll, non era né l’uno né l’altro; dava spazio fondante a sonorità acute, elettriche, talvolta aggressive anche vocalmente e, soprattutto, divideva irrevocabilmente le generazioni.
Intorno al 1965 la musica psichedelica venne ad affiancarsi a queste esperienze apportando il contributo della ricerca libera sui timbri e dell’abbandono degli schemi ritmici e formali. Sembra significativo, dunque, il cambiamento di posizione che i musicisti dei futuri Soft Machine, punta di diamante dell’ala più legata alle avanguardie jazzistiche e colte, ebbero nei primi anni Sessanta. Provenienti tutti da una appassionata adesione al jazz coltivata fin dagli anni in cui frequentavano la Simon Langton Grammar School di Canterbury, Robert Wyatt,  Hugh e Brian Hopper e Mike Ratledge avevano trovato in Daevid Allen e Kevin Ayers un’ulteriore apertura verso il free jazz, il minimalismo e la sperimentazione. Questo iter sembrava procedere verso direzioni totalmente opposte rispetto a quelle dei gruppi beat/rock and roll. Wyatt reagì, nel 1963 all’Institute of Contemporary Arts, ai discorsi dei colleghi a proposito dei Rolling Stones pensando: “Al diavolo il vostro Brian Jones. Io ho i miei dischi di Mingus” (Bennet, 2005: 49). Ma l’anno successivo, spinti anche dal dilagare delle musiche giovanili nelle nascenti radio private i fratelli Hopper giunsero alla conclusione che “i Beatles non erano spazzatura” (ibid.: 51) e, dando vita ai Wilde Flowers,  non disdegnarono di crearsi un repertorio in cui provvidero a “saper pompare i classici popular del periodo – Johnny B. Goode, Green Onions, I Feel Good - e gli ultimi successi – All my Confesses, You Really Got Me, In the Midnight Hour ” (id.: 62), oltre ovviamente a suonare diversi brani di jazz. Per i Soft Machine fu coniata la definizione di jazz-rock, ma la band, ancora verso la metà degli anni Settanta, riceveva nei tour l’accoglienza che si addiceva a un gruppo rock.
Il distacco dalla “ballabilità” fu anch’esso rapido, ma graduale. Paul Mc Cartney, durante il viaggio dei Beatles a Parigi nel 1962, scrisse un breve reportage per Mersey Beat a proposito del “Johnny Halliday Rock Show” all’Olympia:

Quando Johnny Halliday è arrivato, tutti sono diventati selvaggi […]. L’eccitazione è aumentata, gli spettatori si sono alzati per ballare, come quei ragazzi e ragazze che ballano dietro le ultime file. Anche gli uomini anziani, cosa strana non è vero?” (Mc Cartney, 1962).

Lo stupore, un po’ “british”, di Mc Cartney per l’eccitazione del pubblico francese (anziani signori compresi) è una testimonianza dell’impatto del rock and roll sul pubblico europeo e della sua trasversalità generazionale, almeno nella Parigi cosmopolita della canzone d’autore che una decina d’anni prima aveva accolto a braccia aperte il be bop di Miles Davis. Nello stesso tempo testimonia come nei club inglesi in cui Mc Cartney suonava, i ragazzi e le ragazze ballassero “dietro le file” del pubblico seduto. E’ possibile vedere questi giovani danzanti in alcuni filmati dell’epoca. Anche la musica psichedelica, in realtà, poteva essere accompagnata da forme libere di danza. I filmati girati all’Ufo Club durante le esibizioni dei Pink Floyd e quelli che riprendono l’evento di Alexandra Palace nel 1967, mostrano giovani che danzano, interpretando in maniera soggettiva la musica. Invece a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta il pubblico è seduto, guarda e ascolta.
La forza di attrazione del nascente modello inglese di rock non lasciò indenni anche altre forme di musica giovanile coeve come quelle del secondo folk revival. La Gran Bretagna, paese della rivoluzione industriale, ha conosciuto precocemente l’urbanizzazione e il decadere delle culture rurali. Agli inizi del XX secolo l’opera delle tradizioni musicali folkloriche, attuata da studiosi e musicisti in particolare Cecil Sharp (primo folk revival), fu corredata dalla didattica di questi repertori. Il corpus di canti e danze contadini recuperato sopravvisse all’oblio grazie anche alla riproposta a livello scolastico. Da questo humus nacque negli anni Cinquanta e Sessanta  l’attività di musicisti come Albert Loyd e Ewan Mc Coll, collaboratori, tra l’altro di Alan Lomax, e animatori di quello che sarà il secondo folk revival britannico, coevo e ideologicamente parallelo alle omonime esperienze americane.
Simon Frith nel primo numero delle rivista Popular Music (Frith, 1981), delineando i concetti di “comunità rock” e “comunità folk”, ne descrive le differenze soprattutto in termini di rappresentatività politica (molto più evidente nel secondo caso). Il suo saggio si sofferma soprattutto sul concetto di “autenticità”, inteso come fedeltà a un assunto di tipo morale ed estetico, prima ancora che politico. Per Frith il principio di “autenticità” fu importante nel rock degli anni Sessanta, forse anche più che nel folk, dove per essere “autentici” bastava rispettare quei canoni definiti come “tradizionali”. Nel rock invece perseguire l’autenticità voleva dire per i musicisti essere se stessi, tener fede alle proprie necessità espressive senza costrizioni esterne o compromessi di tipo commerciale, in linea con una tendenza di revisione del rapporto individuo-società espressa dai movimenti di contestazione. Frith interpreta in tal senso la cosiddetta svolta elettrica di Bob Dylan, che con la “comunità folk” americana interruppe i rapporti nel 1965 durante un concerto al festival di Newport rimasto famoso.
Il cantautore americano effettuò un tour in Europa nel 1966. Dopo l’appuntamento londinese la rivista Melody Maker pubblicò una critica scandalizzata che ricalcava gli atteggiamenti ostili che si erano manifestati negli Stati Uniti, ma lo stesso giornale ospitò anche una intervista a George Harrison che esprimeva l’ammirazione dei Beatles per Dylan (Sweers, 2005: 39). (4) Sta di fatto che la contaminazione tra il folk e il rock (in particolare grazie all’assorbimento di strumenti elettrici e batteria) divenne presto una realtà importante della scena britannica affiancando il revival più aderente agli stilemi della tradizione. Nella sua ricerca sulla pubblicistica del periodo Britta Sweers mette in luce come i gruppi del folk elettrificato nascevano, come i gruppi rock, da un humus eclettico e onnivoro. I Pentangle debuttarono con il primo disco nel 1967. La Sweers commentando l’immagine con l’annuncio del disco apparsa sulle pagine di Melody Maker dice:

“Situata tra gli annunci settimanali dei folk club e gli indirizzi per prenotare singoli musicisti folk, l’immagine di questa inserzione mostrava chiaramente il carattere ibrido di uno stile musicale che non sembrava adattabile a nessuna delle categorie esistenti, […] Il suo [del gruppo] repertorio eclettico comprendeva non solo vecchie ballate inglesi, ma anche danze rinascimentali, blues, jazz, musica classica e composizioni originali” (Sweers, 2005: 40).

L’avvicinamento tra folk e rock fu limitato da alcuni tratti stilistici (come il maggior rilievo, nel primo, del canto, dei testi verbali e, comunque, delle sonorità acustiche) e dal livello dell’impegno politico (meno esplicito nel secondo). Per altri motivi, però, le due realtà non erano così distanti in quanto offrivano soluzioni diverse a una comune lettura della realtà. In ambedue i casi i musicisti erano  investiti di doveri morali, costantemente messi in pericolo dalle lusinghe del successo commerciale. In Italia i movimenti più convinti di questi principi arrivarono negli anni Settanta a praticare l’autoriduzione del costo dei biglietti per entrare nei concerti. (5) A proposito delle autoriduzioni, durante un programma televisivo italiano, Derek Schulman dei Gentle Giant dichiarava che il pubblico avrebbe dovuto capire che i musicisti stavano facendo il loro lavoro e non avevano interesse ad arricchirsi. (6) Roger Waters dei Pink Floyd, in un’intervista contenuta nel DVD The Making of “The Dark Side of the Moon” (Isis Production, 2003) commenta la genesi di Money:

"Come sai, per la maggior parte di noi i soldi creano assuefazione. Quando The Dark Side of the Moon divenne un vero successo, significò per me dover decidere se per me stesso ero socialista o no. Se a un tratto hai quattro soldi, devi decidere se li tieni. Perchè qualsiasi cosa ci farai, verranno investiti. Quindi devi decidere se diventare un capitalista o no".

A distanza di quarant’anni alcuni modelli nati negli anni Sessanta, e trasversali rispetto alle tendenze stilistiche, continuano a essere coltivati con paziente ostinazione dall’attuale underground musicale giovanile (quello che si manifesta nei piccoli locali o in Myspace) come i comportamenti trasgressivi e ribelli, la ricerca sul suono, il rapporto contraddittorio con il mercato e soprattutto il valore sociale e affettivo del gruppo.

4. Il gruppo come unità creativa

Il gruppo rock era un microcosmo creativo (Hopper, Cutler, Pagliuca in questo sito). La differenza a volte decisamente sostanziale nella formazione musicale dei singoli componenti (provenienti da studi accademici, dal jazz, dal blues-rock and roll, dalla più elementare autodidattica) non impediva ai musicisti di collaborare. Essa era anzi motivo di confronto e arricchimento. Difficilmente le competenze individuali venivano mortificate o sacrificate alla competizione interna. Senza idealizzare situazioni che non erano esenti dai furiosi contrasti e giochi di potere (riferiti nelle cronache biografiche), si può affermare che il comune progetto creativo fosse la molla sufficiente per stabilire equilibri relazionali ed affettivi, a loro volta non irrilevanti sul buon andamento della produzione musicale. Hopper ricorda come la rivalità interna e la definizione di leadership forti fossero prevalenti nelle dinamiche relazionali di gruppo, ma contemporaneamente mette in luce l’efficacia produttiva di tali competitività. Essa, laddove fu più marcata, portò a una rapida e feconda evoluzione  musicale, ma, inevitabilmente, a crisi altrettanto brucianti (Beatles, Genesis).
Il lavoro di gruppo intorno a un progetto musicale non è un fenomeno nato in Gran Bretagna negli anni Sessanta e nemmeno nei coevi gruppi statunitensi. Le modalità di interrelazione tra i musicisti di un ensemble sono uno dei campi più interessanti della antropologia musicale che non manca di osservare come il risultato musicale sia definito da un intreccio complesso di fattori. (7) I gruppi nati nell’ambito del rock ricevono da questo tipo di ricerche una definizione di specificità. Lo studio di Harris Berger, dedicato a musicisti statunitensi degli anni Novanta, suggerisce come la interrelazione tra i componenti dei gruppi di hard-rock sia in realtà diversa da quella tra i musicisti jazz. Per esempio, l’estetica del “entering into the music” imprime un impulso creativo che deriva la sua efficacia dal tipo di esperienza affettiva necessaria per la buona riuscita della performance; d’altra parte una questione tecnica come l’amplificazione sonora, che spesso ostacola il reciproco ascolto dei musicisti, crea la necessità di un’interazione basata sullo sguardo o mediata, per esempio, dal groove della batteria, che ha importanti ripercussioni sugli esiti musicali (Berger, 1999: 152-155). Le varie problematiche esistenziali in due band rock sono l’obiettivo della ricerca di Sara Cohen (1991) nella Liverpool degli anni Ottanta.  In parte queste tematiche del rock più recente, di cui parlano Cohen e Berger, sembrano discendere direttamente dai gruppi degli anni Sessanta.
Una peculiarità era la giovanissima età dei componenti, che spesso si erano conosciuti al liceo (Soft Machine, Pink Floyd, Genesis ecc.), in un ambiente dunque favorevole a situazioni di complicità. La condivisione di luoghi (case comuni o ritiri periodici in luoghi appartati) e esperienze (tra cui quella particolarmente contraddittoria della droga) erano corollario dell’attività musicale. Non poco spazio giocavano, soprattutto nelle fasi iniziali della nascita dei gruppi, alcune figure di amici, consiglieri, talent scout, nonché di produttori e manager, spesso anch’essi musicisti e di età appena più matura. Dal punto di vista musicale la necessità di creare qualcosa di nuovo e originale era uno degli obiettivi del progetto:

“In realtà non volevamo proprio fare parte di quello che era l’ambiente circostante, proprio per questo tutti avevano il chitarrista e i Soft Machine avevano deciso di non avere un chitarrista. L’idea era quella di fare quello che gli altri non facevano, di fare qualcosa di diverso“ (Hopper in questo sito).

Le risposte stilistiche a questa comune esigenza di distinguersi furono disparate. I linguaggi utilizzati si aprirono sia alla musica europea della tradizione classica, romantica e primo-novecentesca sia alle esperienze delle avanguardie che si proponevano il superamento di quella tradizione. Alcune polemiche tra i sostenitori delle due tendenze furono inevitabili. A distanza di quarant’anni tuttavia è possibile affermare che, per i musicisti che avevano seguito i corsi di strumento nelle scuole di musica e nei programmi facoltativi delle scuole secondarie, la rielaborazione di brani del passato è da intendersi più come una forma di riappropriazione che di reverenza.  L’originalità della proposta musicale scaturiva da un fagocitante assorbimento di quanto di meglio fosse stato fatto fino a quel momento. Come lucidamente sosteneva Luciano Berio:

 “L’eclettismo musicale che caratterizza la fenomenologia del rock non è un frammentario impulso dell’imitazione, [...] è dettato da un impulso all’inclusività e - con mezzi musicali piuttosto rudimentali – all’integrazione dell’idea (semplificata) di una molteplicità della tradizione” (Berio, 1967: 127).

La mescolanza mediatica dei generi cominciava evidentemente a produrre l’impressione che tutte le musiche fossero contemporanee o, per meglio dire, esistenti in vita. Musicisti-studenti, all’inizio della diffusione capillare del disco, questi giovani erano tra le prime generazioni in Europa ad avere un’esposizione di rilievo a tanti generi musicali del passato e del presente e anche di luoghi geograficamente lontani. Qualcuno ricorderà che, per spiegare l’insolita fioritura di gruppi musicali di ispirazione statunitense nella scena di Liverpool si disse che ciò dipendeva dall’esposizione verso l’Atlantico del porto di quella città. Bill Harry contesta questa sorta di mito affermando che i dischi di musica americana avevano negli anni Sessanta una discreta circolazione nei negozi in Gran Bretagna. (8) Tuttavia il diffondersi della romantica idea che le musiche viaggiassero ancora attraverso navi, porti e contatti personali, come era avvenuto per secoli di tradizione orale diretta, la dice lunga su quanto fosse recente in Europa la diffusione a ampio raggio della musica attraverso dischi, radio e televisione.
Dunque i musicisti avevano stimoli tanti e svariati come era successo a pochi prima di loro. La reazione fu un eclettismo quasi fanciullesco per quanto spregiudicato: musica classica e antica, be bop e free jazz, elettronica e strumenti rinascimentali o barocchi, folklore europeo e  suggestioni timbriche di altri continenti, blues, ballate, song americani, ritmi dispari di provenienza balcanica, composizione, improvvisazione, scrittura, registrazione - non c’erano limiti. L’eclettismo era, paradossalmente, uno dei pilastri del progetto. L’approccio ai diversi generi poteva essere molto superficiale o basato su una maggiore conoscenza. Il rapporto di George Harrison con la musica indiana fu più profondo rispetto a tutte le coeve esperienze di uso coloristico del sitar (Leante, 2000) e il lavoro di ELP su Quadri di un’esposizione di Mussorsgski ha uno spessore differente rispetto ad altre sporadiche citazioni di temi classici.  

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1. Composizione e sperimentazione / Progressive rock e avanguardia

2. Unità
nell'eclettismo? / Il gruppo come unità creativa


3. Lo sgretolamento della forma canzone /
Il progressive rock alla prova dell'analisi musicale... e viceversa


4. Le espressioni musicali della controcultura / Il "gruppo" sul palco / Epilogo

 

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