|  | GIANMARIO 
BORIO - SERENA FACCI
 
 Quarant'anni 
dopo... Una musicologia 
pluralistica per il rock britannico 
(*)
 
 
 1. 
Composizione e sperimentazione  I saggi e gli interventi pubblicati in questo sito sono dedicati a una 
tendenza della popular music che, originatasi in Gran Bretagna nel corso degli 
anni Sessanta del XX secolo, ebbe ripercussioni in diverse parti del mondo. I 
suoi limiti storico-temporali sono fluidi e variabili a seconda che lo si osservi 
dal punto di vista culturale e politico o da quello delle pratiche musicali. Gli 
aspetti salienti emergono nei pezzi di King Crimson, Genesis, Gentle Giant, Henry 
Cow, Pink Floyd, Soft Machine, Van der Gaaf Generator e Yes che vengono discussi 
nei contributi che potete leggere qui di seguito. Nella saggistica corrente questa 
koiné viene comunemente definita con il termine 
progressive rock (Macan, 1997; Stump, 
1997; Martin, 1998; Holm-Hudson 2002; Pirenne, 2005), che però, essendo tratto 
dall’apparato promozionale di quegli stessi prodotti, è caratterizzato da considerevoli 
ambiguità. L’aggettivo progressive 
serve infatti, a seconda dei casi, a definire l’atteggiamento integrativo rispetto 
ai materiali e agli stili musicali, l’indipendenza nei confronti dell’industria 
discografica, la spinta al progresso e al rinnovamento del linguaggio, il legame 
con la controcultura e i movimenti di contestazione. Anziché sostituire tale termine, 
ormai assai diffuso, con un neologismo, abbiamo preferito concentrare la nostra 
attenzione su un nesso – quello di composizione e sperimentazione – la cui delucidazione 
dovrebbe permettere di evitare l’appiattimento della teoria sui presupposti extrateorici 
del marketing e di approfondire le questioni più rilevanti che quella produzione 
ha posto. L’approccio eclettico, che attinge ai metodi della musicologia storica 
e dell’etnomusicologia nonché agli studi della popular 
music e del jazz, è determinato dalla molteplicità di aspetti delle 
creazioni che stiamo studiando. Il progressive 
rock non appartiene in modo esclusivo né alla tradizione orale né a 
quella scritta; le sue creazioni non sono analizzabili in modo esaustivo né secondo 
i principi della teoria musicale tradizionale né adottando unilateralmente le 
procedure della sociologia, dell’antropologia o della semiologia; l’origine e 
la breve storia di questo stile non si lasciano spiegare secondo la tipica dialettica 
di continuità e rottura con il passato, mentre, d’altro canto, le sue realizzazioni 
non si possono ridurre a prodotti industriali privi di storia (Borio, 2003). La 
ricchezza e peculiarità degli strati culturali rappresentano aspetti affascinanti 
e lanciano al contempo una sfida alle discipline istituzionali. L’esperienza del 
convegno, che si riflette nei contributi, è stata un esercizio di musicologia 
pluralistica in cui vengono superate le rigide divisioni in settori.Composizione e sperimentazione – i due concetti che abbiamo ritenuto 
centrali per questo ambito creativo - richiamano il legame del progressive 
rock con la tradizione della musica d’arte, che nel linguaggio comune 
viene definita “classica”. La pretesa di valore artistico, che si sovrappone e 
in certi casi si sostituisce alla funzione di intrattenimento e alle finalità 
economiche, si manifesta su diversi piani: la lunghezza e la complessità dei pezzi, 
il loro raggruppamento in suites 
o strutture formali di ampie dimensioni, la scelta di testi ermetici, surreali 
e comunque dal contenuto estraneo alle consuetudini del blues e del rock and roll, 
l’impiego di dissonanze e rumori, la richiesta più o meno esplicita di un ascolto 
concentrato. Tutti questi elementi segnalano una prossimità con la cultura musicale 
dei conservatori, delle accademie e dei festival di musica contemporanea, che 
è tanto più degna di nota quanto è stata considerata con scetticismo dai protagonisti. 
Tuttavia sarebbe fuorviante ricondurre, senza alcuna mediazione, le creazioni 
del progressive rock al quadro dell’evoluzione 
storica della musica d’arte. Uno dei fattori di interesse per la musicologia storica 
è proprio il loro collocarsi in modo trasversale nei confronti delle categorie 
storiografiche ed estetiche. Una riflessione su che cosa possa significare la 
parola “composizione” in un repertorio le cui radici ultime affondano nella musica 
popolare, in un repertorio che è cioè extraterritoriale rispetto alle tradizioni 
della sinfonia e dei quartetti, induce a esaminare uno dei capisaldi della musica 
occidentale in una prospettiva che è insieme interna ed esterna.
 Il 
termine “composizione” è diffuso nei trattati sulla musica delle lingue europee 
a partire dal IX secolo. Nella sua complessa storia esso non ha mai perso contatto 
con la sua radice etimologica: comporre significa “mettere insieme”, combinare 
elementi basilari del sistema sonoro creando un’unità superiore (Bandur, 1996). 
Con l’evolversi della notazione dell’Occidente, il concetto di composizione si 
è sempre più strettamente collegato a due fattori: la concezione polifonica, per 
cui composizione significa unificazione di voci simultanee in una sonorità globale 
che trascende il senso specifico delle sue componenti, e la scrittura che fissa 
il pensiero di un autore su un supporto trasportabile. Sebbene le relazioni tra 
la composizione come testo e la sua manifestazione sonora siano state soggette 
a continue oscillazioni, non vi è dubbio che l’evoluzione del sistema semiografico 
e la progettazione di strutture sonore sempre più complesse sono due fenomeni 
correlati che tendono verso una fissazione sempre più precisa del testo (Borio, 
2004). La realizzazione  grafica viene considerata come garanzia del fatto che 
l’idea dell’autore emergerà in ogni esecuzione, anche in quelle delle generazioni 
successive. Una volta completata, la partitura si candida a entrare nel pantheon 
dei capolavori o comunque nel canone di opere che formano il repertorio e il fondamento 
del sapere musicale.
 La 
cultura che culminò nell’affermarsi del linguaggio tonale e nell’emancipazione 
della musica strumentale si contraddistingue per un rapporto tra tre entità: l’autore, 
la partitura e la sua esecuzione. Una delle conseguenze di questo triangolo è 
che l’esecuzione (il suono) è da un lato separabile dalla composizione (che si 
oggettiva nel testo); dall’altro l’idea di interpretazione è iscritta per così 
dire ontologicamente nella musica; ciò significa che per questa cultura non vi 
è musica senza la sua interpretazione. Se si prendono in esame diverse creazioni 
del progressive rock, si nota che 
questo rapporto triangolare non si dissolve (come avviene in molta popular music) ma si ridefinisce secondo una modalità inedita. 
Innanzitutto la dimensione della scrittura – il carattere di testo – si sdoppia: 
da un lato, momenti di scrittura possono apparire nelle fasi iniziali del processo 
compositivo; dall’altro lato, la registrazione in studio assume diverse caratteristiche 
che nella musica d’arte sono proprie della scrittura. Questo scambio di funzioni 
tra scrittura su pentagramma e scrittura su nastro (o disco) è indicativo per 
il mutamento di concezione della composizione. Le ragioni per le quali i componenti 
dei gruppi rinunciarono alla notazione come medium della trasmissione delle loro 
creazioni raramente dipendono dal fatto che essi erano illetterati sul piano musicale. 
Si possono individuare almeno due altri fattori, di ordine più generale, che determinarono 
il passaggio in secondo piano della scrittura: innanzitutto la notazione della 
musica occidentale non permette di rendere in modo adeguato le misture timbriche 
e le escursioni dinamiche che vengono perseguite da questi musicisti; in secondo 
luogo, lo studio di registrazione offre una potente alternativa alla scrittura 
tradizionale, permettendo ai musicisti di tradurre direttamente in suono le loro 
idee e di modificarle in corso d’opera. In altre parole: lo studio di registrazione 
veniva impiegato come laboratorio per concepire, definire, combinare e fissare 
le idee musicali. Questa processualità della composizione ha dal suo canto una 
base istituzionale: i direttori delle nuove collane (Derma presso Decca, Harvest 
presso EMI, Vertigo presso Phonogram) e delle case discografiche indipendenti 
(Translatlantic, Island, Charisma, Virgin) mettevano a disposizione attrezzature, 
ingegneri del suono e tempi di lavorazione.
 Anche 
gli altri due vertici del triangolo della musica d’arte – l’autore e l’interpretazione 
– subiscono dei mutamenti istituendo nuove relazioni. Qui si amplifica una tendenza 
già presente nella produzione dei Beatles: l’autorialità multipla. Tuttavia il 
fatto che i pezzi non siano riconducibili a un autore singolo non dipende più 
solamente dalla divisione delle competenze tra l’autore del testo poetico e quello 
della musica; i pezzi si costruiscono spesso come un mosaico alla realizzazione 
del quale collaborano diversi musicisti. Alla base di questo nuovo tipo di composizione 
sta la tecnica del montaggio, una tecnica che si è diffusa nella composizione 
scritta a partire da Stravinskij giungendo però qui a esiti radicali. Il montaggio 
viene realizzato mediante repentini mutamenti di strumentazione, tempo o metro, 
citazioni dirette o indirette di pezzi del repertorio barocco o classico, l’inserimento 
di sezioni senza tempo spesso atonali o rumoristiche, l’improvviso incremento 
della densità, i cambi di “scrittura” (monodia, omofonia, contrappunto, eterofonia), 
il carattere elaborativo delle sezioni strumentali che separano le strofe di una 
canzone. Esther’s Nose Job dei Soft 
Machine, Supper’s Ready dei Genesis e Close 
to the Edge degli Yes sono tra i più noti esempi di questo comporre 
per sezioni contrastanti.
 Anche nel progressive rock emerge quella figura di compositore-esecutore 
che contrassegnava i gruppi di improvvisazione dell’avanguardia: Nuova Consonanza, 
AMM, New Phonic Art e Musica Elettronica Viva (Evangelisti, 1967; Cardew, 1971; 
Globokar, 1981). Tuttavia vi è una differenza importante: i gruppi di improvvisazione 
realizzano composizioni istantanee che non esistevano in nessuna forma prima del 
concerto e che cessano di esistere alla sua conclusione; in tal modo essi esercitano 
una critica al concetto tradizionale di opera finita e ripetibile. Questa critica 
non era necessaria nel campo del rock, in quanto l’usura del prodotto era già 
iscritta nel modo di produzione; i musicisti del progressive rock compiono il movimento contrario, cercano cioè 
di recuperare alla loro creatività un momento di durevolezza che è ostacolato 
dalla legge di mercato. Gli orientamenti, apparentemente opposti, dei gruppi di 
improvvisazione e di quelli del rock sperimentale possono essere visti come reazioni 
complementari ai vincoli che le istituzioni di riferimento pongono alla libera 
creazione. A questo intreccio si aggiunge, come ulteriore momento di complessità, 
la free music che nasce dalla libera improvvisazione 
del jazz europeo (Bailey, 1992; Prévost, 1995; Watson, 2004).
 Nel 
progressive rock il rapporto tra 
composizione ed esecuzione si caratterizza in modo duplice: da un lato, essendo 
i componenti del gruppo anche esecutori della propria musica, non vi è distinzione 
personale tra compositore e interprete; dall’altro, i musicisti fungono in certa 
misura da interpreti di se stessi dal momento che la registrazione su disco diventa 
il punto di riferimento per il concerto. E’ vero che nella maggior parte dei casi 
il concerto non rappresenta una semplice esecuzione di un’opera la cui identità 
è pienamente fissata e immutabile; tuttavia il pezzo o la suite, che recano titoli precisi, vanno a 
costituire l’oggetto specifico da presentare ai fruitori. Durante il concerto, 
i gruppi sottopongono i pezzi a cambiamenti di vario tipo: le sezioni possono 
essere combinate diversamente tra di loro o con altri pezzi, si possono inserire 
improvvisazioni di uno o più strumenti. Malgrado questi cambiamenti, il prodotto 
mantiene alcune caratteristiche dell’“opera” così come essa si è definita nella 
sfera della musica d’arte, composta da cima a fondo. Nella tradizione della musica 
tonale l'opera musicale presenta due forme fenomeniche: testo e suono. Il testo 
è fisso ed è la condizione per cui l'opera viene tramandata; il suono è mobile 
ed è la condizione per cui l'opera viene recepita. L'opera rimane identica a se 
stessa nel variare delle interpretazioni; il testo funge da depositario e garante 
di questa identità. Questa doppia esistenza viene recuperata in modo eccentrico 
nel progressive rock: nel disco viene depositata 
l’idea, che può pertanto essere trasmessa agli ascoltatori contemporanei e anche 
a quelli futuri; il concerto è un modo di concretizzazione di quell’idea che può 
variare entro certi limiti per esigenze momentanee, per il cambio di alcuni componenti 
del gruppo o nell’interpretazione di un altro gruppo (fenomeno delle cover).
 2. 
Progressive rock e avanguardia Il 
rapporto che i musicisti del progressive rock 
instaurarono con la musica d’arte riguarda due momenti storici distinti: 
sul piano del materiale essi attingono ai repertori della musica barocca, classica, 
romantica e in modo selettivo al XX secolo (Bartók, Weill, Sibelius, Holst, Bernstein); 
nell’impiego creativo delle tecnologie fanno invece tesoro delle recenti esperienze 
della musica elettronica. Il riferimento retrospettivo può avvenire nella forma 
di rielaborazione di brani, per esempio l’intermezzo della Karelia 
Suite di Sibelius e del Sesto Concerto Brandeburghese di Bach in Ars 
longa, vita brevis dei Nice o di una sezione del terzo movimento della 
Quarta Sinfonia di Brahms in Fragile degli Yes. Oltre alle citazioni si 
riscontra tutta una ridda di riferimenti alle sonorità cameristiche e orchestrali 
nonché l’organizzazione formale di brevi brani in suites 
che ricordano quelle della musica strumentale barocca. Infine, l’impiego di alcune 
tastiere (Mellotron e Moog in particolare) consentono la realizzazione di un impasto 
timbrico denso il cui prototipo è l’apparato sinfonico del tardo Ottocento. Il 
secondo aspetto, quello dell’adozione di sonorità elettroniche, rappresenta un 
legame molto più profondo e complesso. I compositori attivi negli studi di musica 
elettronica (a Parigi, Colonia e Milano) lavoravano soprattutto in due ambiti: 
la produzione di nuovi suoni mediante generatori e la manipolazione di sonorità 
preesistenti (strumentali o vocali) grazie a procedure come filtraggi, trasposizioni, 
accelerazione, sovrapposizioni e montaggi. Gesang 
der Jünglinge e Kontakte di Karlheinz Stockhausen, Thema 
- Omaggio a Joyce e Visage di Luciano Berio, 
Aria (with Fontana Mix) di John Cage e La fabbrica illuminata di Luigi Nono sono 
opere paradigmatiche per il secondo ambito; esse aprirono le porte a una dimensione 
ampia composta di suoni naturali e artificiali che può essere definita come spazio 
elettroacustico. I casi in cui l’interazione tra uno strumentista o cantante e 
i suoni immagazzinati su nastro avviene durante l’esecuzione dal vivo mostrano 
noevoli momenti di tangenza con le esibizioni dei gruppi rock. In un saggio che 
si riferisce soprattutto ai Beatles, ai Grateful Dead e ai Mothers of Invention, 
Luciano Berio ha notato questa convergenza: “Col suono elettronicamente manipolato del rock si ha una situazione abbastanza simile 
a quella della musica elettronica: se la fedeltà della riproduzione è sacrificata, 
il contenuto della registrazione ne soffre sproporzionatamente perché quello che 
si perde non può essere compensato dall’ascoltatore ed è, appunto, irrimediabilmente 
perduto. Avviene così che sia il rock che la musica elettronica – tutt’e due 
creature della radio e del suo macchinario di massa – siano paradossalmente incompatibili 
coi mezzi di diffusione che ne hanno provocato lo sviluppo. […] Microfoni, amplificatori, 
altoparlanti diventano quindi non solo una estensione delle voci e degli strumenti 
ma diventano strumenti essi stessi, sopraffacendo talvolta le qualità acustiche 
originali delle sorgenti sonore. Uno degli aspetti più seducenti dello stile vocale 
rock è, infatti, che non ne esiste alcuno. 
Le voci degli esecutori sono ingigantite in tutta la loro naturalità e tipicità, 
istituendo con gli stili di canto formalizzati lo stesso tipo di relazione che, 
in un film, il primissimo piano di un viso istituisce con un ritratto classico.” 
(Berio, 1967: 129) I 
contatti tra i compositori di avanguardia e i rappresentanti dell’underground 
londinese furono sporadici ma indicativi per la presenza di un territorio comune. 
Berio tenne una conferenza presso l’Istituto Italiano di Londra nel 1965, presentando 
le sue opere per nastro e discutendo il suo trattamento della voce (Miles, 2002: 
105-106). Stockhausen e Cage vengono spesso menzionati come punti di riferimento 
da musicisti rock. Il gruppo di improvvisazione AMM, di cui faceva parte Cornelius 
Cardew, compositore che aveva frequentato gli Internationale 
Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt ed era stato assistente di 
Stockhausen, si esibiva in locali e festival in cui si potevano ascoltare i Pink 
Floyd e i Soft Machine; il produttore del primo disco di questo gruppo, Peter 
Jenner, era anche il manager dei Pink Floyd. Nell’ampia compagine musicale della 
capitale britannica si incontrano spesso figure di confine che svolgevano un importante 
ruolo di mediazione per stili e tecniche: Eddi Prévost, Keith Tippett, John Surman 
e Brian Eno sono i nomi più noti. Tra i gruppi in cui si integravano diverse esperienze 
musicali va ricordata la Music Improvisation Company (Derek Bailey, Evan Parker, 
Jamie Muir e Hugh Davis). Significativa è anche la breve esperienza del gruppo 
Whole World, che si formò nel 1970 dall’incontro tra Kevin Ayers (ex Soft Machine), 
David Bedford (che aveva studiato composizione con Lennox Berkeley e Luigi Nono), 
il sassofonista jazz Lol Coxhill e il chitarrista rock Mike Olfield. La commistione 
di stili e culture musicali è ben rappresentata dal festival che si tenne ad Amougies 
(Belgio) nei giorni 24-27 ottobre 1969, che radunava i maggiori rappresentanti 
del progressive rock e della musica 
sperimentale di frontiera: Pink Floyd, Renaissance, Nice, Caravan, Yes, East of 
Eden, Soft Machine, Gong, Captain Beefheart, Frank Zappa, Keith Tippett,  Art 
Ensemble of Chicago, Don Cherry, Archie Shepp, Antony Braxton, Steve Lacy, Robin 
Keniatta, John Surman, Musica Elettronica Viva e molti altri.Terry Riley è stato sicuramente il compositore che più direttamente ha 
influenzato il progressive rock. Daevid Allen, uno dei capostipiti della cosiddetta 
“scuola di Canterbury” ebbe intensi scambi con lui durante il suo soggiorno a 
Parigi a metà degli anni Sessanta; con Riley sperimentò diverse tecniche di loop 
(Camilleri, Rizzardi in questo sito). Il legame con il compositore californiano 
emerge con particolare evidenza nel concerto che si tenne il 13 agosto 1970 alla 
Royal Albert Hall: un quintetto di tastieristi di diversa provenienza (Tim Souster, 
Andrew Powell, Roger Smalley, Mike Ratledge, Robin Thompson) propose un’interpretazione 
dei Keyboard Studies di Riley; dopo 
di che la BBC Symphony Orchestra eseguì la composizione Triple 
Music II di Souster e il gruppo Soft Machine presentò Out-Bloody-Rageous, 
Facelift e Esther’s 
Nose Job. Il primo di questi pezzi si apre con un nastro magnetico, 
su cui è registrato un pezzo per solo organo basato su ripetizioni figurali nello 
stile di Riley, che viene fatto scorrere a ritroso. Nei gruppi rock il loop, come 
ogni altra tecnica, tende a essere semantizzato, cioè ad accogliere in sé significati 
che non gli appartenevano in origine.
 Il 
discorso sui rapporti di influenza nel campo del rock è particolarmente impervio. 
Nella ricerca storica tradizionale essi vengono studiati a partire da indizi che 
spesso sono lasciati dai compositori stessi. A parte pochissime eccezioni, i musicisti 
rock non pubblicarono testi che somiglino anche lontanamente a una poetica o che 
perlomeno contengano tracce di riflessioni preliminari a un processo di ricezione; 
le interviste dell’epoca, rilasciate spesso a scopo promozionale, non esprimono 
contenuti teorici e, qualora contengano qualche indizio, esso va accuratamente 
soppesato. In una sfera culturale dove la pratica prevale sulla teoria, il fare 
sul dire e lo spazio tradizionale della riflessione è spesso occupato dalla meditazione 
o dall’esplorazione della psiche, il punto di osservazione privilegiato è rappresentato 
dalla musica; bisogna cioè studiare le problematiche storiche che si lasciano 
evidenziare a partire dalla sua costituzione. La direzione opposta di questo rapporto 
– che impatto possa avere avuto il rock sulla composizione scritta - si può valere 
del supporto dei testi che quasi tutti i compositori dell’avanguardia pubblicarono; 
il loro discorso rimane però generalmente interno alla sfera culturale in cui 
operano e il caso sopra citato di Berio, che dedicò un approfondito studio al 
rock, è unico.
 Henri Pousseur, che in Votre Faust impiegò un’elaborazione della 
canzone We shall overcome, si è 
soffermato sui risvolti politici dei “suoni selvaggi” che vengono prodotti nelle 
improvvisazioni con live electronics. L’estetica “informale”, che sostiene l’operato 
di gruppi di compositori-improvvisatori come Musica Elettronica Viva e Sonic 
Art Group, considera ritmi e sviluppi periodici, figure riconoscibili 
e il “bel suono” come rappresentanti di una cultura esclusivista e usurpatrice. 
Proprio questo uso critico 
di materiale non addomesticato lascia trasparire una profonda differenza con la 
produzione della popular music, “i cui elementi mobili di profondità non sono diversi, 
ma che (alla stregua di quasi tutto il jazz) cerca in certe articolazioni ereditate, 
per quanto esse possa essere residue, degradate e impoverite (talvolta sono invece 
arricchite in una maniera nuova, in qualche modo laterale), i mezzi di comunicare 
appelli alla rivolta o perlomeno espressioni di distanziamento” (Pousseur, 1970: 
180). L’individuazione di questo legame, esplicito e ricercato, con la critica 
alle istituzioni induce Pousseur a tracciare una linea di demarcazione tra questa 
“arte popolare di contestazione” e la musica di intrattenimento; nell’esibizione 
della corporeità del suono, nell’impatto immediato e fisiologico di sonorità aspre 
e irritanti, egli individua l’indice di una prossimità con la musica elaborata 
elettronicamente dal vivo dei gruppi di improvvisazione totale.
 L’interesse che i compositori di formazione tradizionale mostrarono per 
la musica rock attorno al 1968 ha a che fare con una questione ereditata dall’estetica 
romantica: quella di trovare un equilibrio tra innovazione e comunicazione. Tale 
questione assume ora una portata dirompente a causa del convergere di diverse 
tendenze: la crescente importanza che i concetti di popolo e massa hanno assunto 
nella vita sociale; la tendenza all’espansione planetaria dell’industria discografica 
(che trascina con sé anche sfere fino ad allora considerate antitetiche al mercato); 
la graduale perdita di normatività del repertorio classico-romantico. La musica 
d’arte della tradizione occidentale sembra fallire proprio nel suo mandato di 
diventare lingua universale; il suo posto viene occupato gradualmente dal rock, 
un genere che è intimamente legato ai media elettronici (disco, radio, televisione). 
In questo nuovo ambito creativo si crea lo spazio per una convergenza tra istanze 
sperimentali e orientamento popolare (Martin, 1998: 180-182). La sintesi culturale 
che sta all’origine del rock crea le premesse per ridefinire rapporti che negli 
stessi decenni cominciavano a mostrare un lato problematico: quello tra scrittura 
e oralità, mente e corpo, esecuzione e improvvisazione, suono e rumore. Il rock 
propone un modello di comunicazione musicale in cui l’impiego di sonorità grezze 
e l’avanzamento della dimensione gestuale non sfociano in un linguaggio ermetico, 
ma permettono di raggiungere un pubblico vasto, socialmente disomogeneo e culturalmente 
non più classificabile. Probabilmente sono queste caratteristiche che attiravano 
l’attenzione di Dieter Schnebel, quando, rispondendo a una domanda di Hansjörg 
Pauli, dichiarò:
 “Ciò che mi interessa in modo particolare è che la 
musica pop richiede quello stesso ascolto dissociativo [un ascolto che si concentra 
sulle azioni del produrre suoni]. Questa musica ha davvero raggiunto la coscienza 
di amplissimi strati sociali. Ma se si ascoltano la nuova musica e la musica pop 
con le stesse orecchie, si scopre – il mio ragionamento parte dal nostro versante, 
cioè dalla nuova musica – che attualmente attraverso la musica pop rientrano alcuni 
aspetti che sono stati introdotti dalla nuova musica; in quell’ambito ci sono 
pezzi che suonano come se fossero passati per l’esperienza di Cage” (Schnebel, 
1972: 364). Sebbene 
l’interesse per le nuove tecnologie rappresenti – come notava Berio - un terreno 
comune per i compositori che operano nel quadro delle istituzioni tradizionali 
e i compositori-esecutori del progressive rock, 
questi ultimi sfruttarono a tutto campo la varietà di opzioni offerta dai mezzi 
elettronici. Si possono infatti individuare almeno tre campi in cui la creazione 
musicale si interseca con la tecnologia: 1. Lo studio di registrazione come strumento 
aggiuntivo per la messa a punto dei pezzi; 2. L’uso di strumenti elettrici e dispositivi 
di trasformazione del suono durante il concerto; 3. L’impiego di luci e proiezioni 
durante il concerto.Sul 
primo punto si soffermano i contributi di Rizzardi e Camilleri pubblicati su questo 
sito. Il secondo punto riguarda la particolare “orchestrazione” che contribuisce 
a definire l’identità stilistica di ciascun gruppo e talvolta contraddistingue 
determinati brani. In tale contesto l’uso creativo delle tecnologie si intreccia 
con una questione tipicamente compositiva, quella dell’organizzazione dei timbri. 
La preoccupazione per la buona riuscita dell’impasto timbrico, che è dimostrata 
dall’accurato lavoro di tutti i gruppi presi qui in esame, non può essere spiegata 
come conseguenza di una strategia di mercato. In tutti i casi l’organico devia 
da quello tipico dei gruppi skiffle, 
beat, blues e rock 
and roll inglesi (due chitarre, una solista e l’altra ritmica, 
basso elettrico e batteria) innanzitutto per la rilevanza 
delle tastiere. Esse definiscono in modo specifico la sonorità del progressive 
rock, rappresentando al contempo un marcatore culturale: nel mondo 
occidentale il pianoforte è uno dei requisiti dell’appartamento borghese, è lo 
strumento base della didattica del Conservatorio ed è il mezzo più adatto a un 
unico musicista per abbozzare o “leggere” brani orchestrali. Il suo parente prossimo, 
l’organo, è un altro mezzo favorito di trasmissione del sapere e della pratica 
musicale, essendo presente in ogni chiesa. A questo si aggiunge il fatto che la 
Gran Bretagna ebbe negli anni Sessanta scuole pianistiche di altissimo rilievo 
e ciò ebbe certamente ripercussioni anche al di fuori delle accademie. Nei gruppi 
che abbiamo preso in considerazione, l’organista o il pianista alterna diversi 
strumenti elettrici (in alcuni casi anche il pianoforte acustico) che contribuiscono 
in modo decisivo a produrre la sonorità densa e multicolore che li caratterizza. 
La scelta e la combinazione degli strumenti a tastiera è un fattore determinante 
per la fisionomia di ognuno di questi musicisti; a ciò si aggiunge lo stile esecutivo, 
che è sempre inconfondibile in quanto sviluppatosi da un’esperienza mista, da 
un itinerario personale di apprendimento.
 Nel 
gruppo ELP, Keith Emerson suona come solista in una formazione di tre elementi, 
nella quale può esibire la sua rapidità e la sua inventiva in a soli che svolgono 
una funzione analoga a quelli del jazz, cioè seguono a una sezione tematica a 
mo’ di variazione; a seconda del carattere dei pezzi, Emerson usa l’organo Hammond, 
il sintetizzatore Moog e il pianoforte acustico. Mike Ratledge dei Soft Machine 
adopera un organo Lowrey Holiday Deluxe, a cui aggiunge nel 1969 un Hohner Pianet 
che a sua volta viene sostituito nel 1971 da un Fender Rhodes (lo stesso che utilizza 
Ian Hammer nel gruppo di Miles Davis) con un’unità Echoplex. Talvolta Ratledge 
applica un Shaftesbury Duo-fuzz al 
Lowrey, al fine di creare un timbro 
e un’incisività simile a quelli della chitarra elettrica, nonché altri dispositivi 
di trasformazione timbrica come il wha wha. 
Le caratteristiche dell’organo Lowrey condizionarono il suo stile esecutivo per 
blocchi sonori collegati senza pause (Bennett, 2005: 91); gli a soli, che spesso 
servono da collegamento tra due sezioni composte, si ispirano ai decorsi cromatici 
di Thelonius Monk e Cecil Taylor. Kerry Minnear dei Gentle Giant opera generalmente 
su tre gruppi di tastiere: un organo Hammond, un Hohner Clavinet 506 e un Moog; 
il suono del Clavinet è particolarmente adatto a uno stile contrappuntistico che 
necessita di chiarezza timbrica e precisione ritmica. Il tastierista dei Van der 
Graaf Generator, Hugh Banton, impiega un organo Hammond e un piano Farfisa Professional; 
diverse apparecchiature per la trasformazione del suono (phasing, eco, distorsioni e overdrive) 
gli permettevano di creare amalgami inediti con i sassofoni, la voce di Peter 
Hammill e le successioni accordali che quest’ultimo eseguiva sull’Hohner Pianet; 
l’equilibro timbrico del gruppo è comunque peculiare in quanto, a partire da Pawn 
Hearts è assente il basso elettrico. Sul piano storico, sebbene abbia 
tratti idiomatici completamente diversi, l’espansione timbrica del pianoforte 
che ha luogo nelle tastiere elettroniche dei gruppi progressive 
può essere interpretata come fenomeno parallelo alla trasformazione 
del pianoforte acustico che nei circoli dell’avanguardia era stata introdotta 
da John Cage e che veniva coltivata dalla “nuova scuola pianistica inglese”, da 
John Tilbury, John White, Dave Smith, Hugh Shrapnell, Michael Parsons e Howard 
Skempton (Walker, 2001).
   1 
2 3 
4 > 
 |  |