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Composizione e sperimentazione nel rock britannico 1967-1976

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ROBERTO AGOSTINI - LUCA MARCONI


"Here, There And In Between": parole e musica nella prima fase del progressive rock britannico


0. Premessa

Il contributo di questo scritto agli atti del convegno “Composizione e sperimentazione nel rock britannico: 1966-1976” consiste nell’affrontare la relazione tra le parole e la musica in due album dei più importanti gruppi del progressive rock inglese pubblicati tra il 1969 e il 1970: In The Court Of The Crimson King dei King Crimson e The Aerosol Grey Machine dei Van der Graaf Generator. Per ogni gruppo ci si concentrerà su una canzone particolarmente esemplificativa della relazione tra le parole e la musica della raccolta studiata. Per inquadrare adeguatamente il brano scelto nell’album nel quale compare, è risultato ogni volta indispensabile presentare alcune considerazioni sulle parole cantate in tale raccolta. (1) Le nostre analisi cercheranno di individuare nel testo verbale o musicale di volta in volta considerato ciò che Eco (1979, 1990) chiama “intentio operis”, che può non coincidere con l’intenzione dell’“autore empirico”, cioè del soggetto in carne e ossa che ha ideato tale testo, ma che consiste invece in una serie di inviti che l’ “autore modello” inferibile analizzandolo rivolge al proprio “fruitore modello”. (2)

1. Il re cremisi e l’uomo schizoide

1.1. Tre ragazzi di provincia arrivano a Londra

I King Crimson sono un’evoluzione dei Giles, Giles & Fripp, un trio nato nell’agosto del 1967 a Bournemouth (Dorset) dall’idea di tre giovani musicisti: il batterista Michael Giles (1942), il cantante e bassista Peter Giles (1944) e il chitarrista Robert Fripp (1946). Ben presto i tre si trasferiscono a Londra, dove nel settembre del 1968 pubblicano un LP di scarso successo intitolato The Cheerful Insanity Of Giles, Giles & Fripp. Si tratta di un disco dalle atmosfere beat, caratterizzato da una vena ironica e stravagante che i tre abbandoneranno presto. Quando il disco esce, infatti, il “progetto King Crimson” sta già prendendo forma, come testimoniano le registrazioni private del gruppo dell’estate del 1968, dove troviamo la presenza di due nuovi musicisti – il polistrumentista Ian McDonald (1946–), destinato a diventare membro stabile del gruppo, e la cantante Judy Dyble (1949), che invece lo abbandonerà dopo poche settimane – e brani che mostrano che la direzione che caratterizzerà la produzione dei primi King Crimson è già stata intrapresa. (3) A determinare questo percorso artistico è certo fondamentale l’ambiente londinese, dove i tre ragazzi di Bornemouth conoscono nuovi musicisti e, soprattutto, l’eclettico poeta Peter Sinfield (1946), un amico di McDonald (4) ben introdotto nella scena psichedelica londinese. Egli diviene subito un membro effettivo del gruppo partecipando alla sua vita in vari modi: scrive i testi dei brani, collabora alla produzione dei dischi, cura gli aspetti legati all’immagine e alle luci del palcoscenico e via dicendo. Per arrivare alla nascita dei King Crimson sono determinanti due altri avvenimenti: la firma di un contratto con la Decca, avvenuta nel novembre del 1968, e l’abbandono di Peter Giles, che sarà sostituito da un compaesano dei tre membri originari, Greg Lake (1947). Per la prima prova del gruppo, formato ora da Fripp, McDonald, Giles, Lake e Sinfield, bisognerà attendere il 13 gennaio 1969, mentre il primo concerto si terrà il 9 aprile presso il London Speakeasy di Londra. Sarà il primo di una lunga serie di concerti che porterà il gruppo, alla fine del 1969, ad esibirsi anche negli Stati Uniti. In The Court Of The Crimson King viene invece realizzato in una decina di giorni tra l’agosto e il settembre 1969 presso gli studi Wessex Sound di Londra e pubblicato il 10 ottobre. Raccoglie una selezione dei brani che i King Crimson suonano in concerto, ai quali si aggiunge Moonchild, uno dei pochi brani dei King Crimson mai suonato da loro dal vivo (cfr. tabelle 1 e 2). (5)
Il 1969 è dunque un anno importante per i King Crimson, che vedono premiata la loro frenetica attività dal successo di pubblico e di critica. Le cronache dell’epoca testimoniano infatti la grande impressione che il gruppo suscita nel pubblico grazie al proprio “impatto sonoro”, (Tamm, 1992: capitolo 4) mentre In The Court Of The Crimson King si piazzerà al quinto posto della classifica britannnica e al ventottesimo della classifica statunitense di Billboard. Oggi In The Court Of The Crimson King è considerato un album fondamentale non solo per la nascita del progressive rock, ma per la storia del rock in generale: da più parti viene visto come il punto di svolta determinante che, dal periodo psichedelico, ha traghettato il rock britannico verso il progressive rock propriamente detto. (Macan, 1997: 23-4)

Tabella 1. In The Court Of The Crimson King: informazioni storiche e discografiche.

Tabella 2. In The Court Of The Crimson King: lista dei brani.

1.2. Le parole di In The Court Of The Crimson King

Nelle parole della prima canzone dell’album viene formulata la previsione distopica che l’uomo del futuro, comportandosi come l’incarnazione moderna della figura mitica di Prometeo (6) (pretendendo “more” di ciò che “he really needs”, ma non avendo rispetto e giustizia), avrà forti disturbi di identità (sarà “schizoid”). L’inizio del testo della canzone successiva presenta poi alcune caratteristiche diametralmente opposte (7) invece che una previsione, si enuncia un ricordo, nel quale un essere umano, invece di essere “schizoid”, viene presentato come “straight”, e si rivolge a un altro essere umano che, invece di avere pretese per il proprio futuro come il prometeico “21st century man”, viene qualificato come “late”. Emergono così due opposizioni complementari tra loro, “prometeico (preveggente, anticipatore, pretenzioso) vs epimeteico (improvvido, ritardato, indugiante)” (8) e “straight (dotato di una chiara identità) vs in-between (privo di una chiara identità)”: queste due opposizioni costituiscono un quadrato semiotico (9) che, come vedremo considerando le parole seguenti dell’album, ne sintetizza l’isotopia, fornendo loro una coerenza (cfr. fig. 1). (10)

Figura 1. In The Court Of The Crimson King: quadrato semiotico.

Consideriamo ora l’inizio del dialogo tra lo “straight man” e il “late man”, presente nella prima strofa di I Talk To The Wind:

Where have you been?
I've been here and I've been there
And I've been in between.

Queste parole hanno rapporti intertestuali quantomeno con quattro frammenti che, pur appartenendo a generi piuttosto diversi, convergono nel delineare l’orizzonte d’attesa (11) con il quale i testi dell’album interagiscono.
In primo luogo, la triade “here – there – in between” in un brano di rock del 1969 non poteva non richiamare il ricordo del titolo di una delle canzoni cruciali dell’album del 1966, Revolver, dei Beatles, Here, There And Everywhere.
E’ stata però anche notata un’affinità con un passaggio del Libro di Giobbe
(12) (1, 7):

The Lord said to Satan, "Where have you come from?" Satan answered the Lord. “From roaming through the earth and going back and forth in it”.

Le parole con le quali però vale maggiormente la pena confrontare il dialogo tra lo “straight man” e il “late man” si trovano in due libri, The Doors Of Perception e Heaven And Hell, (13) assai diffusi  nella cultura rock degli anni Sessanta, pubblicati da uno degli scrittori che Peter Sinfield, l’autore empirico dei testi dell’album, indica tra le principali fonti di ispirazione della propria produzione letteraria: Aldous Huxley. (14) In The Doors Of Perception si afferma che “the mescalin taker” ha un’esperienza delle cose ““out there”, or “in here”, or in both worlds, the inner and the outer, simultaneously or successively” (Huxley, 1960: 19); in Heaven And Hell, dopo aver sostenuto che “a man consists of what I may call an Old World of personal consciousness and, beyond a dividing sea, a series of New Worlds” (Huxley, 1960: 74), si afferma che “some people never consciously discover their antipodes. Others make an occasional landing. Yet others (but they are few) find it easy to go and come as they please” (ibidem). Dunque, l’inizio del dialogo tra lo “straight man” e il “late man”, oltre a giocare con il titolo di una famosa canzone dei Beatles, fa scattare un cortocircuito tra uno dei più noti dialoghi tra il Bene e il Male e i dialoghi che Huxley riporta in The Doors Of Perception tra la figura dell’ “Investigator” che seguiva i suoi esperimenti sull’assunzione di mescalina e chi, come lui, cercava di scoprire i propri “antipodes”, caratterizzando la prima figura come un soggetto simile a Giobbe, “straight”, (15) e l’altra come una figura epimeteica (“late”) e “in-between”.
I punti di contatto tra i testi di In The Court Of The Crimson King e i due volumi scritti da Huxley sull’assunzione di mescalina non finiscono qui: se l’album dei King Crimson si apre parlando dello “21st century schizoid man”, Huxley affronta diffusamente “that most characteristic plague of the twentieth century, schizophrenia” (Huxley, 1960: 7). Inoltre, così come il narratore
(16) giudica schizoidi le pretese prometeiche dell’umanità del ventunesimo secolo, così il narratore di The Doors Of Perception prende decisamente le distanze dalle “human pretensions” (Huxley, 1960: 34). Altri punti di contatto si possono poi trovare considerando quali parole seguono in I Talk To The Wind quelle finora qui analizzate: nel ritornello, l’epimeteico “late man” sostiene che il proprio enunciatario sia non chi gli ha formulato la domanda precedente, ma un soggetto non umano instabile, “the wind”, (17) che non lo può sentire, comportandosi sostanzialmente come il narratore di The Doors Of Perception quando questi afferma “I realized that I was deliberately avoiding the eyes of those who where with me in the room, deliberately refraining from being too much aware of them” (Huxley, 1960: 27).
La somiglianza tra questi due soggetti risulta ancora maggiore considerando la seconda e la terza e ultima strofa della canzone: nella seconda strofa, il “late man” afferma di trovarsi “outside looking inside”, così come il narratore di The Doors Of Perception racconta di aver guardato “what was going on, inside my head, when I shut my eyes” (Huxley, 1960: 34). L’uno vede “much confusion, disillusion all around me”, l’altro vede un “inscape […] curiously unrewarding. […] and all this shoddiness existed in a closet, cramped universe” (ibidem).
Nella terza strofa, il “late man” dichiara la propria indipendenza dallo “straight man”, che può solo disturbare la sua mente e usare il suo tempo, così come il narratore di The Doors Of Perception, sotto l’effetto della mescalina, dichiara l’indipendenza del proprio corpo dalla propria mente e dal proprio ego, che nella vita “normale” gli fornisce un’identità (Huxley, 1960: 40-41).
Se in I Talk To The Wind, dopo i primi 2 versi, le enunciazioni del narratore vengono sostituite dalle enunciazioni di altri soggetti, nella canzone successiva, Epitaph, il soggetto dell’enunciazione torna a essere il narratore. Dopo le previsioni del primo brano e i ricordi del secondo, in questo caso troviamo la compresenza di ricordi, percezioni del presente e previsioni. Ciò che viene enunciato ha alcuni degli aspetti negativi della distopia del primo brano, con prevalenza soprattutto della perdita di identità (il muro caratterizzato come portatore di profezie sta perdendo tale sua identità giacché “is cracking at the seams”, così come si è persa ogni identità sociale giacché “everyman is torn apart”) e di equilibrio (la “sunlight” che “bightly gleams” viene vista illuminare “instruments of death”, “the silence drowns the screams”). Nel ritornello, il narratore autobiografico per la prima volta si esprime in prima persona, presentandosi come un soggetto anch’egli prometeico, ma che si preoccupa del proprio futuro, e che teme che il proprio epitaffio sia all’insegna della perdita dell’identità nella “confusion”, a causa della rottura del percorso da questi seguito analoga alla rottura del muro descritta precedentemente. Egli spera di riuscire a evitare, insieme ad altri soggetti umani, tale perdita di identità e di raggiungere una certa euforia che faccia “sit back and laugh”, ma teme invece un futuro disforico: “I fear tomorrow I'll be crying”.
Va notato che nella copertina dell’album il titolo esteso della canzone è Epitaph Including March For No Reason And Tomorrow And Tomorrow, dove il finale “Tomorrow And Tomorrow” è un altro riferimento intertestuale, in questo caso a uno dei più noti monologhi shakespeariani, quello di Macbeth nella scena V dell’ultimo atto del dramma omonimo:

She should have died hereafter;
There would have been a time for such a word.
Tomorrow, and tomorrow, and tomorrow,
Creeps in this petty pace from day to day,
T
o the last syllable of recorded time;
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life's but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury
Signifying nothing. (Muir, 1972: 153-154)

Il narratore, dunque, riflettendo sul percorso che lo conduce al proprio epitaffio, si esprime in modo simile al prometeico, disturbato e disperato Macbeth che medita sulla propria “way to dusty death”: ancora una volta si può rilevare un cortocircuito tra diversi riferimenti intertestuali delle parole scritte da Sinfield, considerando quanto viene affermato in The Doors Of Perception sui momenti nei quali la mente umana non si limita a “formulate wishes”, ma “does anything more”: “when it tries too hard, for example, when it worries, when it becomes apprehensive about the future, it lowers the effectiveness of those forces and may even cause the devitalized body to fall ill” (Huxley, 1960: 41).
Nella seconda strofa di Epitaph, il narratore torna a considerare alcuni ricordi, raccontando che in passato alcuni soggetti prometeici avevano realizzato delle gesta potenzialmente positive:

Between the iron gates of fate,
The seeds of time were sown,
And watered by the deeds of those
Who know and who are known;

Seguono poi due versi che suonano come una sorta di parafrasi di quanto Protagora afferma nell’omonimo dialogo platonico quando questi espone il mito di Prometeo: come Protagora afferma che la conoscenza tecnica fornita da Prometeo ai primi uomini non fu sufficiente a farli sopravvivere finché Zeus “mandò Ermes a portare agli uomini il rispetto e la giustizia, perché fossero principi ordinatori di Città e legami produttori di amicizia” (Reale, 2001: 43), così il narratore afferma che “knowledge is a deadly friend / if no one sets the rules”. La conclusione alla quale allora giunge il narratore dell’ultima canzone della prima facciata di In The Court Of The Crimson King è che il destino di tutta l’umanità sia nelle mani di soggetti con disturbi di identità (“fools”) simili a quelli descritti nella prima canzone dell’album.
La seconda facciata si apre con Moonchild, che condivide il proprio titolo con un racconto pubblicato nel 1929 da Aleister Crowley, autore che nella cultura rock degli anni Sessanta aveva una collocazione non distante da quella di Huxley, per aver anch’egli scritto (prima dell’autore di Brave New World) delle pubblicazioni sulle proprie esperienze vissute assumendo droghe. Le parole della canzone presentano delle somiglianze soprattutto con quanto viene narrato nel settimo capitolo del libro di Crowley, durante il quale la protagonista, Lisa La Giuffria, si sottopone a un rito di iniziazione trascorrendo una notte in una “chapel of abominations”, dove:

“there was nothing else in the room but a square thin altar whose surface was of polished silver, around whose base ran a broad copper band (…) and ten lamps, set in little stars of iron, which gave a faint blue light” (Crowley, 1929: 99-100).

Al termine di tale esperienza, “she felt like a little child. (…) She had regained at a single stroke the infant's faith in human nature; she looked at the universe as simply as a great artist does (ibidem). Lisa e la “moonchild” non si preoccupano della loro solitudine, passano la notte in una calma attesa, utilizzano la loro immaginazione e incontrano fantasmi; l’una “found herself (so to speak) in a small open boat, without provisions, in the midst of a limitless ocean of unutterable boredom” (Crowley, 1929: 99), l’altra si sente “sailing on the wind”. Al di là di queste somiglianze, individuabili solo dal lettore di un libro decisamente di nicchia, sono più significative le relazioni tra il testo di Moonchild e quello delle altre canzoni dello stesso album: la protagonista in esso descritta non ha né le pretese del “21st century schizoid man” né le preoccupazioni prometeiche sul proprio futuro del narratore di Epitaph: è un soggetto epimeteico, indugiante, come il “late man” di I Talk To The Wind, e come questi si rivolge a enunciatari non umani (l’uno parla al vento, l’altra agli alberi), ma se ne differenzia per la sua femminilità, per il suo infantilismo, per il suo concentrarsi su ciò che è “outside” piuttosto che sull’ “inside” e per il fatto che, mentre l’uno vede “disillusion”, l’altra vive esperienze corrispondenti a due episodi strumentali presenti nella canzone, intitolati l’uno “The Dream” e l’altro “The Illusion”.
Dopo che le vicende di Epitaph erano state illuminate dalla “sunlight”, mentre in Moonchild viene narrata l’attesa di un “sunchild” da parte di una protagonista lunare e infantile, nel brano successivo, The Court Of The Crimson King, che chiude l’album, il narratore riprende il tema della relazione tra il sole e la luna all’insegna di un loro conflitto e di un nuovo caso di rottura: “The rusted chains of prison moons / Are shattered by the sun”. Oltre al ritorno delle rotture, del sole e delle allusioni alla morte presenti nella strofa di Epitaph, dal suo ritornello, nella prima strofa di questo brano viene ripreso il discorso del narratore in prima persona e il suo presentarsi nell’atto di muoversi in un percorso collegato allo scorrere del tempo e ai cambiamenti ad esso connessi; in questo caso, però, il narratore non si mostra preoccupato prometeicamente di tali cambiamenti, ma si limita a descrivere le proprie percezioni: si tratta di soggetti appartenenti a un’epoca medievale o rinascimentale; le loro descrizioni sembrano l’esposizione, più che di un’esperienza vissuta dal narratore in tali periodi, di un suo sogno o di una sua visione ambientata in quei tempi.
Ipotizzando che anche in questo caso i due libri di Huxley sull’assunzione della mescalina siano uno dei riferimenti intertestuali di questa canzone, si può notare che il racconto enunciato in questo brano presenta diversi aspetti che, secondo Heaven And Hell, caratterizzano le “visionary experiences”:

- viene sentita una presenza particolarmente intensa della luce (Huxley, 1960: 82);
- ai colori viene data un’importanza maggiore di quella attribuita loro nelle esperienze “normali” (Huxley, 1960: 82-83);
- vengono presentati dei “landscapes, which change continuously, passing from richness to more intensely coloured richness, from grandeur to deepening grandeur” (Huxley, 1960: 83);
- vengono presentate delle “heroic figures”, che non “play a part” (Huxley, 1960: 102), ma “are content merely to exist” (ibidem), mostrando “a profound stillness” (Huxley, 1960: 103) e vivendo in “bright gardens” (ibidem).

Oltre a questa dimensione visionaria, l’esperienza raccontata ha anche un aspetto decisamente simbolico: il narratore, abbandonando le preoccupazioni per il proprio futuro che in Epitaph l’avevano portato a rischiare di cadere nei disturbi d’identità dello “schizoid man” descritto nella prima canzone, sembra trovare la propria identità come prometeico “grasper” di “divining signs” nonostante il fatto che egli si senta dotato di “insufficent schemes”. Tutto ciò che egli descrive sembra tratto dal mondo dei tarocchi o da altri repertori legati al pensiero simbolico di carattere più o meno esoterico ed ermetico, (18) dove ad ogni fenomeno percepibile corrisponde sempre qualcosa, considerato spesso assai più importante, che non è percepibile. Soprattutto le ultime due strofe del brano evocano costantemente questa relazione tra il percepibile e l’impercettibile, sfociando nell’immagine dello “yellow jester” che “does not play but gently pull the strings” le quali fanno sì che “the puppet dance”, immagine inserita a sua volta in un contesto nel quale il detentore del potere, “the crimson king”, viene nominato ma non descritto dal narratore, collocandosi così nella dimensione dell’impercettibile. Per completare questo percorso, è necessario ora soffermarsi sul titolo completo dell’album nel quale sono contenute le canzoni che abbiamo considerato: In The Court Of The Crimson King. An Observation By King Crimson. Un primo aspetto che merita di essere analizzato è l’uso dell’espressione “observation”: ancora una volta, c’è un passo scritto da Huxley considerabile come uno dei suoi riferimenti intertestuali: “Like the earth of a hundred years ago, our mind still has its darkest Africas, its unmapped Borneos and Amazonian basins. (…) Like the giraffe and the duck-billed platypus, the creatures inhabiting these remoter regione of the mind are exceedingly improbabile. Nevertheless they exist, they are facts of observation; and as such, they cannot be ignored by anyone who is honestly trying to understand the world in which he lives” (Huxley, 1960: 73).
Vale poi la pena analizzare l’uso dei due lessemi “crimson” e “king” e la loro diversa disposizione nel titolo dell’album. Come è noto, riguardo alla scelta dell’espressione “king crimson” come nome del gruppo capitanato da Robert Fripp, le testimonianze di chi ha realizzato tale scelta sono assai elusive. Sinfield, a tale proposito, ha fornito la seguente dichiarazione: “The name King Crimson was mine – I wanted something like Led Zeppelin, something with a bit of power to it. Anything better than Giles, Giles, and Fripp. King Crimson had arrogance to it”; da parte sua, Fripp, si è limitato ad affermare che “The name King Crimson is a synonym for Beelzebub, which is an anglicized form of the Arabic phrase B'il Sabab. This means literally the man with an aim and is the recognizable quality of King Crimson”. (19) Egli non ha però fornito alcun elemento per capire su cosa si fondi il fatto che “King Crimson” sia un sinonimo di Belzebù. Rifacendoci a quanto abbiamo rilevato nell’analisi dei testi dell’album, la nostra ipotesi è la seguente:

- l’espressione “crimson king” è stata scelta per indicare il detentore del potere del contesto descritto nell’ultima canzone della raccolta, adottando il lessema “king” per farlo risultare come il soggetto al vertice della gerarchia di potere di tale contesto, facendolo precedere dall’aggettivo “crimson” per aggiungere a tale soggetto ulteriori attributi di potenza risultanti dallo stretto legame di tale colore col sangue, col fuoco e con altri contenuti connotanti energia e violenza;
(20)
-
l’espressione “king crimson” è stata scelta per indicare l’autore modello di tutto il disco, facendolo identificare con l’osservatore di tutte le vicende in esso narrate; in questo caso, ad avere funzione di sostantivo è “crimson”, il colore sanguigno e potente, mentre il “king” che lo precede assume una funzione di lessema qualificante, che aggiunge un attributo regale a tale colore. Così come per Huxley la mescalina, come ogni altra “Door in the Wall”, (21) “raises all colours to a higher power” (Huxley, 1960: 20), così in questo album ciò che ha il potere maggiore, quello di ideare e osservare tutto ciò che viene espresso, è un colore particolarmente potente, “the king crimson”.

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1. Premessa / Tre ragazzi / Le parole di
In The Court Of The Crimson King

2. L'uomo schizoide
del XXI secolo / Tra blues e psichedelia / Una forma "straniata"


3. Una storia travagliata / Crisi di coppia, spray
assassini

4. Il modulo lidio di Octopus / Poems full
of fire

5. The octupus now enfolds me / La piovra e il calamaro / Le canzoni "straniate" di The Aereosol Grey Machine

 

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